«In che senso non hanno il diritto di emigrare?!» La difficoltà è spiegarlo a Valerio, che ha 14 anni e ieri mattina, prima di andare a scuola, si è presentato al Baobab con quattro buste cariche di latte e biscotti rispondendo a un appello su Facebook. Valerio guarda basito i poliziotti in tenuta antisommossa che hanno chiuso via Cupa tra i blindati e circondato le tende dove anche stanotte hanno dormito in troppi, centinaia, scappati dalle guerre e sopravvissuti agli sbarchi degli ultimi giorni. Poliziotti e carabinieri invitano i migranti a uscire. Molti riescono a scappare tra le urla, altri vengono fermati e identificati.

Quarantasei in tutto, i primi caricati e portati in questura a Via Patini, oltre il raccordo, gli altri, dopo una mediazione con i volontari, in quella più vicina a San Lorenzo.

«This is not Italia, this is Libia!», urla tra le lacrime un ragazzo etiope che delle torture della polizia libica porta ancora i segni, e che dopo sei mesi di viaggio si sentiva così vicino alla metà, quasi in Germania.

Una volontaria caccia un urlo: ha visto il ragazzino che si è staccato dal gruppo per avvicinarsi al tavolo dove si affetta il pane per la colazione. Ha afferrato la lama, minaccia di tagliarsi le vene. Gli saltano addosso in due, lo fermano, lo disarmano. Quello piange, si divincola, non vuole andare in questura, ha paura che lo rimandino indietro, in Etiopia, proprio ora che è a un passo da suo fratello che lo aspetta oltre le Alpi.

«In che senso non può andare da suo fratello?», insiste Valerio, misurando con lo sguardo la distanza tra la giustizia e la legge. La legge che prevede la protezione internazionale solo per alcuni – gli Eritrei, ma non gli Etiopi, chi scappa dalla guerra ma non chi scappa dalla fame – e che comunque esige che la domanda venga fatta nel paese dove si sbarca. L’Italia, anche se tuo fratello ti aspetta in Germania. La polizia sgombera le tende che erano state aperte con l’aiuto della comunità Rom, accanto alle loro roulotte, lungo il marciapiede tra la via Tiburtina e le mura del Verano. L’Ama butta via i materassi, pulisce l’asfalto con le pompe, i migranti raccolgono le loro poche cose in fretta. I volontari chiedono di poter incontrare il prefetto. «Ci aveva promesso una soluzione», dicono.

Non sotto elezioni. La prefettura è impegnata con i seggi. Dopo un’altra trattativa, la polizia accetta di mantenere le tende in via Cupa, «che sono meno visibili». Il problema sembra quello di ripristinare il decoro urbano, l’unico totem al quale buona parte della cittadinanza sacrifica la propria indignazione.

baobab tenda

Via Cupa, Roma, la stretta striscia di asfalto davanti ai locali del Baobab sgomberati a dicembre, non deturpa il decoro. Ma non basta a ospitare le tende, che comunque non basterebbero – dormono in nove in tende da tre – e che comunque sono sempre tende in mezzo alla strada, una strada nascosta alla vista dei comitati di quartiere ma esposta alla pioggia di ieri, come tutte le strade.

«Servirebbe un posto decente per poter accogliere i migranti in transito – insistono i volontari – con le docce, i bagni, una cucina. Ce lo hanno promesso». È che sono lì, in duecento, e in decine di migliaia negli hotspot e negli accampamenti e nelle strade d’Italia e di Grecia, e lungo la rotta balcanica, ma non esistono più.

I «transitanti», dopo l’approvazione del regolamento di Dublino, sono inchiodati dove sbarcano: transitare è illegale, raggiungere la propria famiglia è illegale, cercare lavoro in un paese dove il lavoro c’é ancora invece che in Italia è illegale. Ma questo non scoraggia le centinaia di migliaia che scappano, che continueranno a transitare, ingrossando gli affari dei trafficanti di uomini ora che non possono più affidarsi alla legge.

«Da qui non ce ne andiamo», promettono gli attivisti. «Continueremo a dare da mangiare ogni giorno alle decine che si mettono in fila, e ci batteremo per ottenere un posto dove accogliere e ristorare uomini, donne e bambini prima che si rimettano in viaggio».

Un posto dove far rispettare una legge che non c’è.

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Le tende al centro Baobab – foto Francesca Fornario