Fin qui non c’è nessuna verità nel caso Regeni. Illazioni ed accuse si sommano senza arrivare a nessuna prova decisiva. Questo accade perché, nonostante i flebili appelli del governo italiano, l’ultimo lanciato ieri da Gentiloni, le autorità egiziane non stanno collaborando con il team investigativo italiano, volato ormai da troppi giorni in Egitto.

Anche l’ambasciata egiziana a Roma si è unita al coro di smentite rendendo tutto il quadro indiziario davvero fragile. Neppure il luogo dove il dottorando italiano sarebbe stato prelevato dalla polizia è certo. Gli sms resi noti ieri in seguito agli interrogatori con amici e colleghi del pm Colaiocco, in cui Giulio scrive «sto arrivando», e le comunicazioni via internet con la sua ragazza, insieme all’assenza di immagini video riprese dalle telecamere a circuito chiuso dei negozi che si trovano intorno alla fermata della metropolitana Behoos, sotto casa sua, potrebbero di nuovo riportare la scena dell’arresto nei pressi di piazza Tahrir (metro Mohamed Naguib) quel maledetto 25 gennaio scorso quando Giulio è sparito nel nulla.

Ma dopo giorni di indagini è emerso tutto un quadro di relazioni tra il ricercatore italiano al Cairo e i suoi amici. Non è solo Giulio ad essere coinvolto in questo crimine orribile. Ci sono tante altre persone, inclusi suoi colleghi ricercatori che lavoravano sugli stessi temi del giovane friulano: sindacati indipendenti e movimenti alternativi. Tutti loro potrebbero essere stati controllati per le loro attività di studio e, solo per alcuni escluso Giulio, forse anche per il loro impegno politico. È lì potrebbe essere trovata la vera risposta per stabilire se Giulio effettivamente fosse sotto controllo prima del 25 gennaio oppure no.

Quando poi quella stessa notte Giulio Regeni è sparito, alcuni dei suoi amici egiziani hanno iniziato a twittare Where is Giulio? Dopo pochi minuti tutti questi tweet sono spariti perché si è deciso, in accordo con l’ambasciata italiana al Cairo, di procedere secondo le consuetudini egiziane di non fare «outing» nel caso di un congiunto desaparesido ma di avviare le ricerche in modo informale e fare pressione sulle autorità locali.

Questa decisione è centrale per rivelare il clima di spavento e preoccupazione per la propria persona che probabilmente la cerchia di amici di Giulio viveva nel contesto e nel clima della dittatura militare egiziana. È possibile anche che si sia trattata di una semplice sottovalutazione del rischio, che coinvolge – come è stato scritto – anche le responsabilità dell’Università inglese in materia di risk assessment sui temi della ricerca del dottorando.

A questo punto torna prepotentemente in campo la pista dell’arresto sommario di uno straniero, avvenuta per mano della polizia egiziana.
Tutte le testimonianze fornite fin qui sui poliziotti in borghese e l’arresto mirato di una «spia» sono sembrate davvero fabbricate e prive di riscontri credibili. Almeno due domande: se davvero ritenevano che Giulio fosse una spia perché non avrebbero perquisito la sua casa e avrebbero addirittura fatto ritrovare il suo computer?

Al momento dell’arresto devono essere emersi elementi indiziari contro il giovane ricercatore che hanno fatto insospettire i poliziotti. Forse il suo accento, forse i numeri sul cellulare o altro.

Questo ha potuto far prolungare l’arresto o portare al passaggio di mano da un apparato all’altro che anche noi abbiamo vissuto al momento del nostro arresto il 2 febbraio 2011. O addirittura, se davvero la polizia stava mirando a quel gruppo di persone che partecipava ad assemblee sindacali, si potrebbe anche ipotizzare lo scambio di persona perché nella sua cerchia di amici Giulio era il più lontano dall’identikit di attivista dichiaratamente politico.

È possibile che gli interrogatori siano andati avanti per giorni. A quel punto Giulio è stato torturato come solo la Sicurezza di Stato sa fare. Nei giorni scorsi sono emerse indiscrezioni dall’autopsia italiana che rivelano scariche elettriche ai genitali, emorragia celebrale e sette costole rotte. Insomma un trattamento da spia che Giulio non era. Forse il giovane ricercatore si è strenuamente rifiutato di fare i nomi della sua cerchia di contatti e amici o è stato nelle mani di veri macellai. A quel punto il ragionamento dei carnefici egiziani è stato: «punirne uno per educarne cento».

Far ritrovare il cadavere, solo dopo la telefonata del ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, al suo omologo egiziano può apparire un errore dei suoi carnefici o altro. Ma in realtà era la prova essenziale, da una parte, per chiarire a tutti che Giulio fosse magari un gay o una spia e, dall’altra, per spaventare ogni straniero che voglia seguire le orme del brillante e sfortunato studioso friulano.