Le autorità etiopi hanno indetto tre giorni di lutto nazionale a partire dal 3 ottobre per le vittime degli scontri di domenica tra le forze di sicurezza e i partecipanti all’annuale festival religioso di Irreecha. Sono più di 50 le persone rimaste uccise nella città di Bishoftu – 40 km a sud-est della capitale Addis Abeba – nella calca e durante la fuga precipitosa per mettersi al riparo dai gas lacrimogeni e dai proiettili di gomma sparati dalla polizia per disperdere i manifestanti che scandivano slogan anti-governativi mentre erano in corso le celebrazioni.

Si stima che c’erano circa 2 milioni di persone quando insieme alle braccia in alto con i polsi incrociati si sono levate anche le urla ritmate «Abbiamo bisogno di libertà» «Abbiamo bisogno di giustizia», tra lo sventolio di bandiere rosse, verdi e gialle dell’Oromo Liberation Front (un’organizzazione politica che si batte per i diritti dell’Oromo bollata come “terroristica” dal governo).

Gli slogan in particolare erano rivolti contro l’Oromo People’s Democratic Organisation uno dei quattro partiti regionali che formano l’Ethiopian Peoples’ Revolutionary Democratic Front, al governo da un quarto di secolo.

Le braccia incrociate – che simboleggiano i polsi ammanettati – sono un segno di protesta del popolo Oromo contro le violenze e le repressioni del governo etiope che si sono intensificate a partire da novembre 2015. All’ultima edizione dei Giochi Olimpici a Rio de Janeiro, il maratoneta oromo Feyisa Lilesa ha incrociato le braccia nel momento in cui ha tagliato il traguardo – arrivando secondo – in segno di protesta contro il governo e di solidarietà al suo popolo.

Gli scontri sono continuati anche nella mattinata di lunedì, all’arrivo in massa dei parenti delle vittime a Bishoftu e Ambo per protestare e chiedere la liberazione degli arrestati. Manifestazioni, secondo alcuni testimoni, pacifiche e silenziose che le forze governative avrebbero ancora disperso in modo violento.
Secondo diversi gruppi per la difesa dei diritti tra cui Amnesty International, Human Rights Watch e l’Association for Human Rights in Ethiopia, tra i 400 i 600 Oromo (che con gli Amhara, un altro gruppo etnico, rappresentano il 60% della popolazione etiope) sono stati uccisi dalle forze di sicurezza a partire da novembre scorso durante le proteste contro l’Integrated Development Master Plan del governo che prevedeva l’esproprio dei terreni agricoli e lo spostamento forzato di molti Oromo a vantaggio dell’espansione urbana di Addis Abeba con la creazione di una zona industriale nella regione di Oromia.
Il piano è stato poi abbandonato a gennaio, ma le proteste sono continuate per chiedere riforme politiche e uno stato di diritto.

Gli Usa recentemente hanno denunciato l’uso eccessivo della forza contro i manifestanti, definendo la situazione del Paese «estremamente grave».

Per il presidente etiope Mulatu Teshome Wirtu – proprio ieri a Roma in visita ufficiale – la responsabilità dell’incidente è invece «dell’azione di alcuni facinorosi». Al termine di un colloquio al Quirinale, il presidente Sergio Mattarella ha espresso «i sentimenti di profondo cordoglio del popolo italiano e miei personali per i tragici avvenimenti di ieri. Siamo certi che le autorità etiopi sapranno fare piena luce sull’accaduto». Al centro dei colloqui anche la questione dei flussi migratori: «L’Etiopia – ha continuato Mattarella – ospita nel suo territorio circa 800 mila profughi di altri Paesi, ed è un contributo importante che fornisce alla comunità internazionale e che rientra anche nel suo ruolo, in tutta la Regione dell’Africa orientale, di stabilizzazione e di pace».