Nelle storie dei migranti di Ventimiglia c’è il moto perpetuo del loro peregrinare, il propellente che non li fermerà mai. Il posto di blocco dei francesi, i poliziotti italiani in assetto anti sommossa, l’indifferenza dei più e l’astio dei pochi, non sono che piccole, insignificanti tappe di un lungo calvario. Donne e uomini che parlano di bombe, razzie, stupri di massa, carestia, mancanza di acqua, barconi affondati e cimiteri di mare, apparentemente non provano nulla di fronte all’ennesima difficoltà del loro lungo viaggio che li porterà in un posto qualsiasi del mondo, con ogni probabilità migliore del luogo da cui sono fuggiti.

«Diteci dove dobbiamo andare», ripetono.

Il caso ha voluto che questi centocinquanta fra uomini, donne e bambini, giungessero a Ventimiglia. Il caso, perché loro non hanno idea di dove sia questa colorata località rivierasca: sanno solo che è vicina alla Francia, e la Francia e vicina all’Inghilterra. Due paesi che sono terre promesse, dove trovare amici, parenti, lavoro, normalità.

Nel salone della chiesa di san Nicola, una struttura dall’architettura dura e spigolosa, nella notte di lunedì hanno deciso in un’assemblea che una marcia verso il confine poteva sensibilizzare animi anestetizzati. I migranti non capiscono il perché di questi blocchi in un’Europa che si dice priva di frontiere.

Il resto, l’agitarsi per centocinquanta persone, è puro melodramma italo francese.

Era sufficiente vedere lo striscione con cui ieri i migranti hanno attraversato le vie della cittadina ligure: un lenzuolo bianco, recante alcune scritte che invocavano i «fratelli e le sorelle ad aprire i confini in nome dei settecento morti annegati negli ultimi giorni». Sotto il primo caldo dell’anno, vestiti con giacconi invernali, sono partiti dalla parrocchia di padre Francesco, il missionario che due sere fa aveva aperto le porte della sua chiesa. Un corteo silenzioso, pacifico, che non voleva andare da alcuna parte, perché il confine francese dista quattro chilometri dal centro di Ventimiglia. Hanno percorso solo poche centinaia di metri, poi il passo del corteo ha trovato l’azzurro insormontabile dei reparti anti sommossa della polizia.

Un’estetica tragicomica: in una stretta via di Ventimiglia un esercito vero fermava un esercito di derelitti digiuno, perché intento a fare lo sciopero della fame. Corpi prestanti, protetti da scudi, caschi, manganelli, di fronte a pantaloni lisi giubboni di lana, ciabatte da spiaggia.

Una protesta priva di protesta, silenziosa, senza tensione, il tentativo di urlare al mondo «siamo qua, esistiamo. Non potete far finta di non vederci. Diteci dove dobbiamo andare». Ma nell’apatia generale il plotone dei migranti era prettamente ignorato dai più, perché ormai diventati parte dell’arredo urbano con cui si convive. Lontani dalle spiagge, relegati in vie secondarie: Ventimiglia non si scompone di fronte a un fenomeno ormai strutturale. Molti si angosciano, tanti portano vestiti, merendine, acqua, sapone e scarpe. Altri non vedono, ciechi.

Nelle lunghe ore di stallo è stato più volte intimato ai profughi di tornare indietro, perché rischiavano l’identificazione e l’allontanamento forzato.

Alcuni si sono spaventati: gira tra questi uomini e queste donne una nuova paura, dopo le infinite da cui sono scappati. Quella di essere imbarcati su una nave e spediti in un campo di prigionia in Turchia o Libia.

Utilizzano questa frase «don’t want to be a prisoner in Turkey», non voglio essere un prigioniero in Turchia. Questa prospettiva, ricorrente, è temuta più della fame, dei colpi della polizia, del girovagare senza meta e senza scopo. E la voce gira, si inspessisce come una leggenda: amici finiti in Turchia a fare gli schiavi, rispediti indietro con il beneplacito dell’Europa. Di nuovo il mare da attraversare, per tornare indietro.

Testimonianze dirette non ci sono, ma rimane l’incubo che da Ventimiglia si possa partire alla volta di un vero inferno.

Poi la stanchezza prevale abbracciata alla paura, l’armata dei migranti sa che il loro cammino è partito da molto lontano e terminerà molto lontano: nel tempo e nello spazio. Di fronte al forte dell’Annunziata, fuori dal centro storico, non è accaduto nulla. Tornano indietro, verso il loro terzo approdo: dopo il ponte sul fiume Roja, il cortile e il porticato della parrocchia di padre Francesco, giunge il tempo della Caritas.

L’obbiettivo delle istituzioni italiane è allontanare i profughi dal confine; portarli sempre più verso est, lontano anche da stazioni ferroviarie di confine e soprattutto dai sentieri che scavalcando le impervie montagne liguri che si buttano a mare, e che scavalcano i posti di controllo italiani e francesi.

La Caritas fornirà un pasto per la serata, mentre per il pernottamento l’attivismo del vescovo Antonio Suetta rende disponibili il seminario di Bordighera e la chiesa di Roverino. Domani il pellegrinaggio dell’armata dei migranti riprenderà, in attesa di sapere dove andare.