Era nell’aria. Un po’ tutti sapevano che l’inchiesta giudiziaria sulla mafia capitale non si sarebbe fermata a dicembre dell’anno scorso. E così, passate le elezioni regionali, ieri a Roma si è consumato il secondo episodio di questo romanzaccio criminale. In attesa del terzo, del quarto, ecc. Su mandato della Procura guidata da Giuseppe Pignatone, i carabinieri hanno eseguito altri arresti, tanti arresti, quarantaquattro arresti. Assessori, consiglieri comunali e regionali, presidenti di Municipio, dirigenti e funzionari amministrativi, assistenti politici, imprenditori, cooperanti e varia umanità corrotta o collusa.  Alcuni già raggiunti in precedenza da avvisi di garanzia, altri del tutto inediti. Le accuse sono le stesse della volta scorsa: associazione mafiosa, turbativa d’asta, corruzione, false fatturazioni e via delinquendo.

Siamo dunque in linea di continuità con l’inchiesta originaria. Gli arresti di ieri sono l’esito di un approfondimento investigativo, frutto un’evoluzione interpretativa; e non è da escludere che i nuovi sviluppi nelle indagini siano stati possibili grazie anche alle testimonianze rilasciate dagli inquisiti di dicembre.

Le meccaniche criminogene, così come i riferimenti fattuali, sembrano gli stessi, sebbene ancora più pervasivi e dilatati geograficamente. Le pratiche illegali riguardano in sostanza le assegnazioni pilotate dei servizi di accoglienza e assistenza, meglio se dettate dall’emergenza, così come il controllo dei bandi per gli appalti di manutenzione. A beneficiarne, sempre la Cooperativa sociale 29 giugno o altri soggetti a essa affiliati o riconducibili, o comunque in rapporti di alleanza. E ciò grazie alle decisioni, alle indicazioni, alle pressioni di amministratori e amministrativi corrotti: associati in una vera e propria rete di complicità, guidata e gestita da Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, il rosso e il nero.

«Questi consiglieri devono sta’ ai nostri ordini». E proprio così andavano le cose. Da almeno un decennio. Attraversando quindi le diverse giunte che si sono avvicendate in Campidoglio, in un ingordo consociativismo agli ordini di una banda criminale. Non c’erano appartenenze politiche, ma solo accordi trasversali: per riversare ingenti risorse pubbliche ai monopoli della sofferenza sociale, e così ottenendo in cambio voluminose mazzette. Tra le tante nefandezze che traspaiono da questo sistema inquinato, quella che forse più indigna è la mercificazione della povera gente, la sistematica e contabilizzata estorsione nei confronti di chi aveva bisogno di essere raccolto e accolto. Un rifugiato un euro, un profugo un euro, un migrante un euro. A ogni poverocristo assistito corrispondeva una tangente prestabilita. Un vero e proprio pizzo sul dolore umano.

Un crudele malaffare che non aveva colori. L’inchiesta giudiziaria descrive un collaudato sistema di controllo sulla spesa per le emergenze umanitarie che coinvolge esponenti di spicco sia del Partito democratico che di Forza Italia. In un alternarsi di ruoli istituzionali, ora di maggioranza, ora di opposizione, che in ogni caso garantivano quei flussi finanziari dai quali ottenere le proprie sporche spettanze E il quadro degli arrestati ne è una plastica rappresentazione, in un’inquietante ritmica di pluralismo criminale. Che non riguardava solo le rappresentanze politiche ma anche le realtà economiche finanziate, tra le quali non c’era solo la cooperazione storicamente di sinistra ma anche quella d’ispirazione cattolica.

In attesa di altre e forse ancor più fragorose incursioni giudiziarie, cosa resta della politica cittadina? Poco o nulla. Un sindaco che con fierezza si fa forza della sua estraneità e rivendica di aver rischiarato gli angoli bui; il suo partito, che è gran parte della sua maggioranza, è sempre più compromesso e comincia a sgretolarsi rovinosamente; un’opposizione già largamente indebolita e ora definitivamente abbattuta per le sue stesse malversazioni. In una città che assiste quasi con indifferenza a questo cataclisma, piegata da un impoverimento sociale sempre più esteso e forse stanca di resistere al proprio declino.