Il cyberpunk, lo steampunk non sono una distopia, come spesso viene sostenuto da scrittori e studiosi di questi generi letterari. Semmai sono da interpretare come una critica di alcune tendenze di cattura da parte delle imprese dell’innovazione e del sapere sociale diffuso presenti nell’interregno. Detto più pacatamente possibile. Il cyberpunk è stato, certo per una manciata di anni, il mezzo usato all’interno di una guerriglia intellettuale per abitare criticamente l’interregno e per affinare strumenti politici di critica del capitalismo in trasformazione.
Sarebbe inoltre impensabile ripercorrere la nascita della Rete, la crisi dello Stato-nazione, l’affermarsi del neoliberismo senza fare riferimento alla fantascienza e al fantasy, sia su carta che su grande e piccolo schermo. E allo stesso tempo ai testi del già citato David Harvey, di Saskia Sassen e, in maniera per me più convincente, Toni Negri, Michael Hardt, Paolo Virno, Sandro Mezzadra e Brett Nielson, laddove hanno scritto e parlato di centralità della conoscenza nel processo lavorativo, di impero come forma politica di un capitalismo ormai globale, insomma di un regime di accumulazione per espropriazione compiutamente dispiegato dentro e fuori Internet, sempre che la distinzione tra dentro e fuori la Rete abbia ancora un qualche valore euristico nell’analisi del capitalismo contemporaneo.

PER IL MOMENTO, tuttavia, è utile partire dal presupposto che la fantascienza sociale è stata un potente strumento per una possibile, e auspicabile, riappropriazione del presente, passaggio necessario per mettere in forma un futuro che non sia l’eterna ripetizione dei rapporti sociali del presente, come sono le tecnoutopie. Sono stati molti gli studiosi che hanno sostenuto questa prospettiva di superamento di luoghi comuni ammantati di utopia. E altrettanti sono stati gli scrittori o registi che hanno presentato le loro opere come una forma dissimulata, mimetica potremmo dire, di una critica dell’ideologia dominante.
In molte interviste, ad esempio, Philip K. Dick ha detto espressamente che la fantascienza era sì un genere divertente, che consegnava nelle mani di chi si avventurava su quei territori una libertà di espressione impensabile in altri generi letterari. Ma è lo stesso Dick a sostenere in più di una occasione che la fantascienza è una forma corrosiva di narrazione del presente scrivendo di futuro; o di un passato che poteva diventare altro da quel che è poi stato.
Chi si è inoltrato sul sentiero della fantascienza, mettendola in rapporto con l’utopia, è stato sicuramente Fredric Jameson, che in un fulminante saggio ha messo in relazione l’immaginazione del futuro in forma di parola con la produzione dell’ideologia e con la rappresentazione mimetica della società. Il testo, che in inglese aveva l’evocativo titolo Archaelogies of the Future (Archeologie del Futuro), è stato solo parzialmente pubblicato da Feltrinelli con il titolo Il desiderio chiamato utopia.

IL FILOSOFO e critico letterario statunitense segue lo schema teorico dell’utopia di Ernst Bloch, in particolar modo quando mette in tensione il desiderio e bisogno e, qui la distanza con Bloch è evidente, tra identità e differenza. Per Jameson, l’utopia esprime un bisogno difficilmente quantificabile e circoscrivibile di un’altra realtà da quella che capita di vivere. E che questo bisogno (desiderio) trova due forme espressive: la filosofia politica radicale e la fantascienza.
Da qui la sua rassegna, nella seconda parte del volume, quella non tradotta in italiano, di alcuni autori e autrici della fantascienza. Sono saggi illuminanti su come la fantascienza abbia registrato – e sempre più spesso anticipato – tendenze economiche, politiche, culturali e sociali divenute poi moneta corrente nella discussione pubblica.

A PARTIRE DALLA CRISI dello Stato nazione, ampiamente messa a tema da Isaac Asimov nella trilogia della Fondazione, dove il potere è appunto esercitato da una governance che vede in azione una sovranità imperiale composta da un gruppo di paesi economicamente sviluppati, imprese globali e organismi internazionali.
Più o meno quello che accade ora nella globalizzazione neoliberista, con tanto di emergenza climatica e riduzione radicale delle materie prime del pianeta terra. Oppure delle forme di controllo messe in scena da Philip K. Dick, in una atmosfera sempre paranoica, claustrofobica, dove il controllo coniuga sia la dimensione panottica della società punitiva di Michel Foucault che la dimensione introiettata dai singoli messa a fuoco da Gilles Deleuze quando ha scritto di società di controllo. Oppure il medioevo digitale narrato nella fase cyberpunk da William Gibson, dove Rete, disoccupazione di massa, innovazione, pervasività della scienza, della conoscenza e della tecnologia hanno prodotto una vera e propria mutazione antropologica.
Senza per questo ignorare lo sguardo prospettivo, dissonante e in questo caso anticipatore di Ursula Le Guin, che usando il fantasy, come già segnalato, riesce a cogliere la grande trasformazione delle relazioni sociali dal punto di vista di genere e razziale.
Frederic Jameson affronta, in pagine molte belle, tutti questi autori, offrendo una chiave interpretativa delle opere prese in esame che ruota attorno all’asse di identità e differenza. L’identità costituisce il consolidarsi di logiche, forme del vivere associate, mentre le differenze le mutano, le costringono a un costante divenire per garantire la sua riproduzione. Applicato al capitalismo significa che la fantascienza si misura con le differenze all’interno di una riproduzione innovativa della logica di accumulazione capitalistica. E lo fa, viene da aggiungere, ignorando la gabbia della coerenza.
Il climax di tutta la fantascienza radicale e sociale del secondo dopoguerra è all’insegna degli effetti collaterali del futuro. C’è una immaginazione al lavoro che restituisce conflitti, nodi del presente e possibili esiti di tendenze in atto. La fantascienza si pone cioè al confine dei territori dell’utopia, della distopia, dell’eteropia.

SONO TERRITORI dai confini porosi. Si può facilmente ignorarli o varcarli senza necessariamente avere la sensazione di un mutamento dello spazio sociale simbolico in cui il lettore è collocato dall’autore di turno. Non si negano qui le loro differenze stilistiche. Quel che è da sottolineare infatti è il fatto che l’oggetto che li accomuna è sì il futuro, ma soprattutto il presente. Si parla cioè del futuro per mettere a fuoco il lato oscuro del presente (distopia) o per segnalare le potenzialità di liberazione del presente (eteropia).
Non si vuole qui offrire l’ennesima analisi ipertestuale dei romanzi di William Gibson, Philip Dick, Ursula Le Guin, Bruce Sterling o Neal Stephenson. Si segnalano solamente alcuni temi che avranno e hanno un ruolo centrale nelle tecnoutopie del secondo Novecento.
In primo caso, le crescenti diseguaglianze sociali e un accentramento feudale del potere (il medioevo digitale di Gibson, Sterling e Stephenson), la polarità e le mai risolte contraddizioni e conflitti razziali alla luce dell’emergere di comunità elettive che vedono l’adesione razziale e di genere all’interno autosufficiente e collaterale a un frame politico-istituzione decisamente wasp, cioè «bianco», ma in costante erosione di legittimazione (Ursula Le Guin). E poi la povertà, la riduzione del lavoro a risorsa scarsa a favore del consumo (l’accesso a merci che danno status) come fattore imprescindibile nella costruzione della propria identità sociale o l’adesione a identità collettive definite nella sfera pubblica.
Un caleidoscopio di temi e argomenti che sono diventati il fattore imprescindibile dell’analisi sulle tecnoutopie, cioè alla loro capacità di poter immaginare il futuro.

 

SCHEDA

«Tecnoutopie. I confini della Rete tra mondi reali e realtà immaginarie» di Benedetto Vecchi uscirà domani nelle librerie (DeriveApprodi, pp.112, euro 15) raccogliendo gli ultimi e inediti scritti prima della sua scomparsa avvenuta nel 2020. Fra i suoi volumi, «La rete dall’utopia al mercato» (Ecommons, 2015), «Il capitalismo delle piattaforme» (manifestolibri 2017), e con Zygmunt Bauman «Intervista sull’identità» (Laterza 2003), oltre a saggi, contributi per riviste e curatele (fra cui «Marx e la società del XXI secolo», ombrecorte, 2012, con Francesco  Antonelli).