Un filosofo della politica d’eccellenza proiettato nella prassi parlamentare quotidiana, in una legislatura difficile come la presente, che non finisce di finire; un linguaggio, forgiato nella capacità di astrazione, che cerca di mordere l’attualità della prassi politica. Questo Democrazia senza popolo. Cronache dal parlamento sulla crisi della politica italiana (Feltrinelli, pp. 217, euro 16) è un unicum nella importante e vasta produzione di Carlo Galli: è in primo luogo, il racconto dall’interno di un’esperienza parlamentare. Ma, allo stesso tempo, è la messa all’opera di un sapere sulla politica, che non pretende di dedurre l’azione politica da postulati invariabili, ma che al tempo stesso non rinuncia a leggere, nella contingenza quotidiana, forme e concetti strutturali.

A QUESTO ESERCIZIO di guardare la contingenza da vicino senza farsene dominare, questa legislatura d’altronde si presta in modo particolare: si è incentrata per larga parte sul tentativo di personalizzazione estrema della politica, operata da Matteo Renzi, e culminata nell’avventura fallita del referendum costituzionale; allo stesso tempo, proprio questa estrema personalizzazione, è in realtà il sintomo di un processo molto più ampio. L’estremo interesse del libro è appunto il modo in cui questi piani sono tenuti insieme. Si tratta, in sintesi, del fallimento di Pier Luigi Bersani e dell’affermazione apparentemente irresistibile di Renzi. Contemporaneamente, siamo però di fronte a una trasformazione strutturale del quadro politico italiano, dal panorama tendenzialmente bipolare della «seconda» repubblica, a uno sbilenco tripolarismo, con l’ingresso del M5S.

Soprattutto, però, è allo sfondo generale di queste trasformazioni che guarda Galli: una crisi più generale e complessiva, che riguarda la stessa idea moderna di politica come capacità di modellare i rapporti sociali, di trasformare il disordine con cui la modernità deve fare i conti sin dalla sua origine in un ordine che apra alla possibilità di emancipazione: una politica che sappia, in ultima analisi, decidere sulle relazioni economiche e sul mercato. La crisi è crisi complessiva di questa architettura, che si era incarnata massimamente nelle istituzioni dello stato nazionale e aveva toccato la sua massima efficacia nel modello del welfare state.

Galli è estremamente rigoroso nel riportare a questo nocciolo fondamentale – la crisi della ragion politica statuale moderna – i tratti fondamentali del nostro paesaggio politico. L’estrema personalizzazione della politica, ma più ampiamente tutto il processo di accentramento dei poteri sui governi, il prevalere della governabilità come norma fondamentale degli equilibri costituzionali, ma anche, dall’altro lato, la reazione populistica e la riapparizione dei mostri della xenofobia e del nazionalismo sono riletti alla luce della crisi di quella razionalità politica fondamentale, alla crisi di quella capacità di direzione assicurata dal Politico statal-nazionale moderno.

È IL NEOLIBERISMO, evidentemente, ad aver determinato la consumazione di quella capacità della politica. Nell’analisi di Galli, il neoliberismo sembra soprattutto il risultato di un attacco esterno alla politica statuale, si incarna nei crescenti vincoli sovranazionali, trova la sua base di attacco, in Europa, nei Trattati di Maastricht e Schengen, nell’imposizione del Fiscal Compact e nella famigerata «lettera» della Banca Centrale. Ora, che la «costituzione finanziaria» europea sia tutta ispirata ad una politica neoliberista e autoritaria, è cosa su cui non si può che concordare. Ma che il neoliberismo sia il contrario e il nemico rispetto alla razionalità politica statuale, e l’abbia in qualche modo distrutta dall’esterno e «a spinta», è invece piuttosto dubbio. Qui l’invito al realismo di Galli merita davvero di essere approfondito, di essere portato più oltre: ci tocca, se davvero vogliamo individuare elementi per uscire dalla crisi, e per respingere le derive autoritarie e xenofobe, fare esercizio di profondo disincanto anche da quel modello classico del Politico moderno statuale. Sia per ragioni evidenti nella battaglia politica quotidiana.

Gli stati nazionali, piuttosto che limiti o «trattenitori» del neoliberismo, sono evidenti nodi di implementazione delle politiche neoliberali: difficile immaginare, proprio per realismo, il soggetto statuale come perno fondamentale di una resistenza alle politiche liberiste, come le tremende difficoltà dell’esperienza greca insegnano. Ma soprattutto l’esercizio di ulteriore disincanto va già posto a livello teorico: il modello della politica «moderna», sovrana, è possibile rappresentarlo come alternativo, autonomo e sovrapposto, rispetto al cosiddetto «economico» e ai suoi interessi? Per affrontare la crisi, un esercizio di critica del Politico, della sua rappresentazione come autonoma e superiore rispetto alle forme e alla trasformazione della produzione e dei suoi soggetti, forse sarebbe utile, per evitare di restare impigliati dentro la tensione perenne a «ricostruire» un Politico attaccato o perduto.

È UN DUBBIO cui Galli non resta però in fondo estraneo: per esempio, ricordando come la candidatura nel Partito Democratico di Bersani fosse motivata dalla ricerca di un freno di tipo socialdemocratico alla deriva liberista, aggiunge che, forse, proprio la possibilità di porre un freno di quel tipo meriterebbe una discussione di fondo. Appunto. È una discussione urgente per evitare l’eterna ripetizione dell’uguale. Ma per affrontarla, e saper guardare anche ai nuovi livelli di azione politica che si aprono, dalle città ai movimenti sovranazionali, alle soggettività altre rispetto sia all’alfabeto classico del Politico che a quello della sua consunzione neoliberale (si pensi ora alla forza di sparigliare il panorama che ha avuto la comparsa della marea femminista globale), occorre che la critica del presente «in nome del Politico» sappia trasformarsi in una critica dell’autonomia di quel Politico e dell’assolutezza delle sue architetture.