Nel 2013 l’artista Kapwani Kiwanga è in residenza a Dakar, dove scartabella degli archivi fotografici sull’indipendenza di diversi Stati africani. Non intende adottare la logica del monumento scultoreo, ovvero una materia geologica che perennizza i traumi nazionali. Familiarizzandosi con gli eventi diplomatici legati al passaggio di potere, alla creazione di un nuovo Stato sovrano e all’indipendenza dei paesi africani dal loro protettorato, lo sguardo di Kiwanga va ai tavoli delle negoziazioni e ai palchi su cui sono pronunciate le allocuzioni ufficiali. In particolare, a colpirla è un dettaglio futile che, per quanto sgargiante, passa perlopiù inosservato: i fiori, testimoni silenti di tali eventi geopolitici. Un dettaglio marginale ma non affatto secondario se pensiamo che l’uso dei fiori in Africa è piuttosto limitato, come ha dimostrato Jack Goody ne La cultura dei fiori, un librone di seicento pagine tradotto da Einaudi nel 1992 e oggi ingiustamente dimenticato. Così nasce Flowers for Africa, un progetto tuttora in corso che segue lo stesso protocollo: a un fiorista locale, ogni volta diverso, l’artista fornisce una fotografia proveniente dagli archivi e non destinata a essere esposta. Si tratta di documenti per lo più in bianco e nero, dove non è sempre facile identificare il nome dei fiori. La ricostruzione del bouquet, per quanto accurata, è così il risultato di un’interpretazione. Siamo davanti a una riattivazione della storia piuttosto che a una semplice ricostruzione del passato. È possibile mettere in gioco i rapporti di potere e le sue asimmetrie, che interessano Kiwanga, restituendo il lungo processo di liberazione dei Paesi africani dal giogo colonialista? È possibile trattare un tema complesso come la decolonizzazione attraverso un elemento così decorativo e infimo? Quali sono le potenzialità e i limiti di una strategia estetica e politica che passa per il vegetale? Kiwanga installa le sculture floreali su dei piedistalli bianchi da museo, di diversa altezza e dimensione.

In assenza d’ogni volontà di tenerli freschi e di dare ai fiori quella cura di cui hanno bisogno, finiscono per avere lo stesso destino e aspetto di una vestigia architettonica. Appassiscono e avvizziscono sotto lo sguardo degli spettatori: più che delle nature morte, ricordano delle vanità. Il loro sfiorire – e il loro compostaggio una volta la mostra terminata – sono l’antitesi di quanto offre la scultura o la fotografia: quando la storia diventa organica deperisce molto più velocemente che quando è trasmessa attraverso la pietra o la chimica. A mostrarsi è la fragilità dei processi storici e della costituzione degli Stati africani ma anche dell’entusiasmo che si accompagna alla ratifica di questi documenti d’indipendenza, quando nella vita quotidiana subentrano difficoltà di ordine economico, politico e sociale. Canadese trasferitasi a Parigi, Kiwanga espone Flowers for Africa al Centre Pompidou nel 2020, ottenendo, con questa installazione di tredici composizioni floreali, il premio Marcel Duchamp. Laureatasi in antropologia e religione comparata alla McGill University di Montréal dopo studi di letteratura, integra la dimensione della ricerca alla sua pratica artistica, che si è diretta più recentemente verso l’afrofuturismo. Un arco di foglie d’eucalipto per la Repubblica del Ruanda nel 1961; gladioli bianchi e rossi per l’indipendenza dell’Algeria dalla Francia nel 1962, cui seguono Nigeria, Uganda, Tanzania, Mozambico…: così Kiwanga dà corpo e vita, colore e odore alla memoria culturale e ai processi di emancipazione di molti paesi africani.