Nonostante l’epoca mediatizzata nel profondo sia indotta a pensarlo, la politica non è soltanto agire comunicativo. Ovviamente, ci si riferisce non tanto e non solo alla politica «tecnologia del potere» (il cui principio guida è l’efficacia: linea Machiavelli), bensì al paradigma alternativo del «discorso pubblico partecipato deliberativamente» (in cui pre/vale l’istanza alla «virtù»: linea Erasmo da Rotterdam): la scoperta fatta nel corso delle rivoluzioni settecentesche che la società è plastica, dunque modificabile grazie alla politica, tanto da poter accantonare le aristocrazie di sangue (Ancien Régime); messa in mora dall’emergere nello spazio aperto della democrazia egualitaria di nuove aristocrazie, questa volta del denaro (Plutocrazie).

Comunque sia, questa politica si articola in tre ambiti rigorosamente interagenti: «strategico» (definizione del dove e come andare, con chi andarci e perché), ovviamente «comunicativo» (promozione delle proprie ragioni, mobilitazione dei consensi) e – ultimo ma non ultimo – «organizzativo» (strutturazione/stabilizzazione dell’impegno attraverso un soggetto dedicato).

L’enfasi sulla comunicazione ha diffuso la falsa impressione della natura performativa della dichiarazione – per cui il dire è già di per sé l’atto compiuto – sicché strategia e organizzazione sono finite nel dimenticatoio. Sebbene siano primarie condizioni di successo per ogni politica. D’altro canto, per far tornare in auge l’agire strategico occorrerà spezzare l’incantesimo che affligge il campo politico – buona parte della sinistra compresa – per cui siamo immersi nel «presente immobile del migliore dei mondi possibili» tratteggiato dall’ideologia NeoLib. Mentre la riscoperta dell’agire organizzativo presuppone la presa di coscienza che – come diceva il massimo consulente novecentesco dell’establishment, Peter Drucker – «l’organizzazione è l’habitat umano». Sicché le mitologie spontaneistiche di questi anni possono indurre un sentimento di tenerezza in chi ha ormai una certa età (e dunque ricorda con affetto i miti della sua giovinezza, dall’assemblearismo all’autogestione), senza per questo dimenticare che proprio nel confusionismo dispersivo sono affondate tante speranze generose e – di converso – hanno tratto alimento le reazioni più feroci. Eppure la questione non sembra interessare.

Anche nell’ultimo saggio del massimo teorico di Occupy Wall Street – David Graeber (Progetto Democrazia, per il Saggiatore) – il problema di degerarchicigizzare la decisione non riesce a oltrepassare il confine del bon ton in materia di scambio di enunciati: «L’essenza del processo di creazione del consenso sta nel fatto che, quando si tratta di prendere una decisione, tutti dovrebbero avere lo stesso peso e nessuno dovrebbe sentirsi vincolato». Ciò premesso, come Graeber pensi di gestire problemi complessi deve ancora esserci spiegato. Resta aperta la questione di come strutturare processi che diano senso, significato e continuità all’azione collettiva. Ossia misurarsi con la questione organizzativa, prendendo atto che ogni epoca ha trovato un paradigma dominante, che improntava di sé l’intero habitat umano, recependo le logiche dell’attore sociale di maggior successo. All’inizio dell’Ottocento, l’esercito prussiano, che ispira la costruzione di un apparato burocratico impersonale. Ben presto sarà la rivoluzione industriale a colonizzare gli immaginari dell’epoca – dall’avventura ferroviaria alla fabbrica fordista – imponendo criteri «di massa» e anche i primi partiti «di massa» che iniziavano ad aggregare le moltitudini industriali.

A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso abbiamo assistito ad una sorta di toyotizzazione della forma-partito che sempre di più si faceva «lean» (leggero); tanto da scivolare nei format «aziendali», «di plastica» o «personalistici», funzionali a quella «democrazia del pubblico» in cui i cittadini elettori sono degradati a spettatori, cui è consentito solo l’applauso mentre, e – al tempo stesso – vengono illusoriamente gratificati grazie a promesse d’ascolto puramente teatralizzate da parte del leader. In sostanza, una «forma» al servizio di una virtualizzazione del discorso pubblico, trasformato in reality televisivo; che i morsi più che concreti della crisi in cui siamo precipitati si premurano di fare a brandelli. Questo comporta il viaggio a ritroso dal casting della politica spettacolo alle dure repliche della realtà.

Da qui, il brusco ritorno alla questione cruciale: quale potrebbe essere il nuovo modello-partito a misura del Terzo Millennio? In grado di interiorizzare le caratteristiche intrinseche che connotano l’habitat: discredito pregiudiziale delle élite, assenza di un centro di aggregazione nell’economia senza piedi del decentramento produttivo trasnazionale, frantumazione dei grandi aggregati sociali, potenzialità mobilitanti delle nuove tecnologie wireless e «indossabili», ecc.

Insomma, la forma-partito da ricercare deve fare cose difficilissime: connettere senza la pretesa di stabilire priorità, far emergere soggettività dalla pluralità, portare a fattor comune esperienze disperse, indirizzare energie multiple verso un unico obiettivo (pur in assenza di un Palazzo d’Inverno da assaltare o di una Bastiglia da radere al suolo).

Se vale la simmetria con il passato, nel mondo in cui la distribuzione ha soppiantato la produzione, il paradigma non può che essere logistico. Dunque, un partito hub&spoke, con le caratteristiche imposte dal trasportismo marittimo: a geografia variabile e coordinamento situazionale. Quindi: struttura su base comunicativa per circuitare mobilitazioni e messaggi identitari, portavoce di leadership collettive, impegno su base volontaria pro tempore. Inoltre…