La prospettiva di un governo nazional-populista in Italia sembra preoccupare i cosiddetti mercati e l’establishment, ma ancora niente di paragonabile coi tempi della crisi del 2011. Tra i commentatori è stato ipotizzato un ritorno del rischio politico che dovrebbe preludere quello economico-finanziario.

La spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che le nuove forze di governo potrebbero essere meno destabilizzanti di quanto abbiano finora lasciato intendere (la ritirata sul debito ne è un esempio).

Ma deve esserci qualcosa di più profondo che contribuisce ad anestetizzare il contesto.

A ben riflettere, già da alcuni anni dopo l’esplosione della crisi abbiamo assistito a un’abdicazione del politico senza particolari sussulti di instabilità. In questi ultimi anni è capitato all’Olanda di restare senza governo per sei mesi, alla Spagna per dieci, al Belgio addirittura per 541 giorni. Persino l’apparentemente inossidabile locomotiva tedesca ha faticato per oltre cinque mesi prima di trovare un’intesa tra popolari e socialdemocratici.

Sembrerebbe che l’economico non abbia bisogno del politico, ma solo in apparenza. Le banche centrali e le loro politiche, specie se espansive, si fondano su una sfera statuale esistente a monte, che per credibilità e solidità sia in grado di garantire l’emissione stessa di moneta.

Essa, infatti, non solo ha consentito di evitare il collasso, ma ha prodotto anche una ripartenza. Ciò che però non si è consolidato è una ripresa autonoma dei fondamentali. Il contesto resta costellato da incertezze che non sono dovute solo al perdurare di un quadro politico che naviga a vista.

Certamente esiste un rischio dazi promosso dagli Usa, come uno costituito dalla Brexit, ma questi non hanno avuto il tempo di dar vita al recente rallentamento dell’economia della Germania e tanto meno al ritorno del segno negativo nel primo trimestre del 2018 per il Pil del Giappone, un dato che non si registrava da almeno tre anni. Insomma alla droga monetaria hanno fatto ricorso in tanti, ma il percorso di disintossicazione resta lungo.

Tra i paesi che più hanno fatto ricorso a politiche monetarie accomodanti solo gli Usa ne hanno stabilito la fine, ma i tassi d’interesse crescono con cautela. Segno che l’anestetico monetario spesso è ancora necessario.

La politica delle banche centrali resta l’unica politica capace di sopportare gli affanni del presente. Non è un caso che Draghi continui a rimarcare il proprio impegno per il Vecchio continente, Italia compresa, allontanando in maniera decisiva i rischi che provengono dalla politica.

Un caso macroscopico dei processi in corso si incontra in Libano. Un paese indubbiamente piccolo e geograficamente lontano, ma congenitamente instabile, con un debito che supera il 150% e un deficit pari al 10%.

In una recente intervista al Sole 24 Ore il presidente della sua Banca centrale ha sostenuto che il loro settore del credito in questi anni di crisi è stato protetto dalla finanza pubblica e che «fino a quando funziona l’economia è in grado di avere buone performance». Quasi un ragionamento tautologico.

In Libano la liquidità non manca di certo e in un mondo in cui non si sa più dove mettere i soldi il Libano è uno dei tanti sbocchi dove è conveniente investire. Il paese dei cedri è banco-centrico, i depositi superano di tre volte il Pil, la finanziarizzazione galoppa, non c’è guerra o scontro etnico che tenga.

In questo paese non si votava da nove anni, il recente risultato elettorale ha consegnato un quadro con il baricentro spostato verso l’Iran, le forze politiche filo-occidentali sono arrivate solo terze, sarà un problema avere un nuovo governo, ma l’economia non preoccupa.

Nel Faust di Gothe Mefistofele mediante l’invenzione della carta moneta riusciva a rimpinguare le casse del regno, oggi le banche centrali con quei foglietti riprodotti «a miriadi per magia» puntellano l’economia a tutte le latitudini.

Se non è politica questa.