Eletta «mente rivoluzionaria» dalla prestigiosa rivista americana Seed nel 2008, Ilaria Capua è nota a livello internazionale per i successi in campo scientifico nello studio dei virus influenzali, così come per la determinazione con la quale difende le sue posizioni sulla ricerca. Il suo libro I virus non aspettano (Marsilio, 2012, pp. 180, 16 euro) ci fa ben comprendere il motivo per cui, eletta nel febbraio 2013 alla Camera dei deputati, abbia accettato di entrare in politica: «Il mestiere del ricercatore non è solo microscopi, stanzette buie e libri, la scienza è prima di tutto condivisione di informazioni, di valori, di metodo, di risultati ed è anche, purtroppo o per fortuna, politica: in questo senso, la coltivazione di rapporti, essere nel posto giusto al momento giusto, la visibilità sono fondamentali per portare avanti i progetti in cui si crede».

Nata a Roma nel 1966 da genitori benestanti, laureata in medicina veterinaria all’università di Perugia (a Roma la Facoltà manca), si è specializzata presso l’università di Pisa e ha conseguito un dottorato di ricerca all’università di Padova. Ricercatrice in virologia è direttrice dell’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie di Legnaro, vicino a Padova, e ha ricevuto prestigiose onorificenze, entrando nella classifica dei cinquanta scienziati top di Scientific American e ottenendo nel settembre 2011 il prestigioso Penn Vet Leadership Award, il massimo riconoscimento nel suo settore.

In questo suo libro, Capua racconta con molta sincerità e con una buona dose di ironia «aneddoti privati, incontri straordinari e esperienze surreali», fornendo il ritratto di una donna normale – sposata a un ricercatore e mamma di una bambina ancora piccola – e nello stesso tempo straordinaria, che si è imposta all’attenzione mondiale con le sue scoperte e con le sue decisioni controcorrente.

A contatto con la paura

Fin dagli inizi della sua carriera di ricercatrice, si è dedicata allo studio dei virus emergenti, quelli che passano da un animale all’uomo facendo un salto di specie come Ebola, Hiv, Sars e molti altri che sono causa di gravi epidemie e pandemie. La sua prima esperienza sul campo avvenne in Africa nel 1996 dove era scoppiata una grave epidemia di febbre emorragica causata da struzzi infettati da zecche. Ilaria era appena trentenne, desiderosa di «fare qualcosa di buono per il mondo» e venne spedita a Johannesburg da un funzionario dell’Unione Europea, per fare il punto sulla «Crimean Congo Haemorrhagic Fever». Qui conobbe Bob Swanepoel, guru della virologia, con cui collaborò ricevendo molti preziosi insegnamenti. L’esperienza sudafricana le insegnò tra le altre cose anche la paura, quella che si prova quando si ha a che fare con i virus più letali e si è costretti a indossare uno scafandro perché ogni contatto potrebbe risultare mortale. «È proprio questa paura che ti aiuta a rimanere sempre vigile e a tenere la mente aperta». Riuscì a portare a termine con successo la sua difficile missione e imparò per la prima volta a stendere quei dossier, «complicati come opere di ricamo al tombolo», sulla cui base le autorità internazionali devono prendere decisioni molto delicate sull’opportunità di aprire o meno scambi commerciali tra paesi. Da allora non si è più fermata.

I maggiori meriti della sua carriera scientifica sono due e sono riferiti agli esiti delle sue ricerche condotte nel 2000 e nel 2006.

Nel 2000 ha sviluppato «Diva» (Differentiating Vaccinated from Infected Animals), la prima strategia di vaccinazione contro l’influenza aviaria che ha consentito di sradicare con successo una grave epidemia, permettendone il controllo senza abbattere tutti gli animali coinvolti. Tra il 1999 e il 2000, il suo laboratorio presso l’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie era stato scelto come riferimento a livello nazionale nel cercare di contrastare un’epidemia di influenza aviaria che in Italia, solo fra Veneto e Lombardia, aveva provocato diciassette milioni di morti di volatili. Un pericolo per la salute umana e un danno enorme per l’economia.

Il metodo «Diva»

In quegli anni era vietato vaccinare i volatili perché non c’era modo di distinguere quelli già infetti, nel gruppo di quelli vaccinati. L’Unione Europea ordinava l’abbattimento di tutti gli animali per evitare di mettere sul mercato alimentare o di esportare anche animali portatori sani di virus, che avrebbero potuto contagiare l’uomo o altri allevamenti. Con i giovani ricercatori del suo gruppo (erano solo in cinque), Ilaria decise di cercare una strategia in grado di distinguere gli anticorpi dei polli vaccinati da quelli dei polli infetti, ciò avrebbe permesso, quindi, di vaccinarli, invece di sterminarli tutti a ogni ritorno del virus. Per mesi lavorò a ritmi febbrili, vegliando giorno e notte sugli esperimenti in atto e alla fine riuscì a mettere a punto con successo il metodo Diva, primo test capace di individuare gli anticorpi indotti dal vaccino da quelli prodotti dopo il contagio del virus. Fu un successo tutto italiano, diventato oggi una metodica raccomandata da organizzazioni internazionali come Oie, Fao e Unione Europea; un risultato che ha dimostrato le potenzialità di eccellenza della nostra ricerca.

Adesso il laboratorio dà lavoro a settantacinque persone circa, la metà pagate con fondi internazionali: «Sono diventata un’imprenditrice» dice Capua, che ogni anno concorre con progetti per aggiudicarsi fondi europei e mondiali, cercando così di ottenere i miliardi di euro indispensabili per la ricerca e per la formazione di personale proveniente anche da altri paesi.

Nel 2006, a fronte della minaccia epidemica in Africa causata da «avian virus», sfidò il «modo di operare» dell’Organizzazione mondiale della sanità relativo al deposito delle sequenze genetiche di ceppi altamente patogeni di influenza aviaria, fondamentali per preparare diagnostici e vaccini. Con un gesto di ribellione contro la loro privatizzazione, depositò la sequenza genetica del primo ceppo africano di influenza H5N1, che il suo laboratorio aveva sequenziato per primo al mondo, in una banca dati aperta a tutti anziché in una privata ad accesso limitato.

Contro l’interesse dei pochi

L’Oms l’aveva invitata a registrare la sequenza genetica del virus in un database accessibile a pochi laboratori, offrendole in cambio la password, ma Ilaria Capua rifiutò. Scelse di diffonderla, usando piattaforme digitali ad accesso libero (GenBank), liberalizzando quindi anche la possibilità di produrre il vaccino. «Avevo l’opportunità di stimolare un cambiamento, scegliendo di condividere con la comunità scientifica delle informazioni fondamentali invece che tenerle per me favorendo l’interesse di pochi e magari rischiando di causare una grave emergenza sanitaria».

Questa presa di posizione rivelò per la prima volta l’esistenza segreta del database dell’Oms protetto sui dati genetici dei virus, e diede vita a un acceso dibattito internazionale sulla condivisione interdisciplinare dei dati genetici e portò a cambiare la politica delle organizzazioni internazionali in materia di trasparenza dei dati, con il pregevole risultato di ottimizzare le strategie per affrontare minacce globali come le pandemie.

Ilaria Capua racconta poi come il successo e la fama ottenuta con Diva l’abbiano trasformata in una ricercatrice globtrotter, sempre in viaggio dalla Georgia, al Messico fino al Giappone. Consapevole dell’importanza dei traguardi raggiunti, la scienziata che il mondo ci invidia non si ritiene una «martire votata alla scienza», ma semplicemente una donna che crede in quello che fa e che è stata in grado di sfruttare le opportunità che la vita le ha presentato, non senza fatica e difficoltà, conciliando il ruolo di mamma («il lato A») con il lavoro («il lato B»). Nell’ultima parte del libro invita le donne a valorizzare «il lato B» della loro vita, a «tirare fuori la grinta, i denti, le unghie, la forza e la capacità organizzativa che solo le donne hanno». E soprattutto a osare. «Osiamo immaginare di vincere un premio Nobel, di diventare un grande cardiochirurgo che salva la vita alle persone o qualcuno che ha avuto un’idea rivoluzionaria. Immaginiamo di essere la prima donna che… Osiamo per noi stesse, per quello in cui abbiamo creduto, ma anche per il nostro paese, per i nostri figli».