Dal 2 maggio, il Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise si aggiunge alla lunga lista di parchi nazionali italiani privi di presidenti. In Abruzzo, il Parco Nazionale della Majella è privo di un presidente dal dicembre del 2017, e dalla fine del 2018 è senza direttore. Lo aveva vaticinato, parlando con l’ExtraTerrestre qualche mese fa, Giampiero Sammuri: «Oltre il 50% dei parchi nazionali italiani potrebbe ritrovarsi senza presidente, perché ne mancano già 11 su 24, ed alcuni sono in scadenza». Sammuri, presidente del Parco nazionale dell’Arcipelago Toscano, a inizio novembre 2018 è stato confermato alla presidenza di Federparchi, dopo il IX Congresso che si è tenuto a Roma il 24 e 25 ottobre. Sammuri, che anche dalle colonne del manifesto nell’autunno del 2017 aveva difeso la legge di riforma dei Parchi, oggi è convinto che «l’iter che non si è concluso nella scorsa legislatura non riparta, perché non esiste una maggioranza Lega-M5S coesa su queste tematiche». Intervistato da l’ExtraTerrestre, mette in fila quelli che – dal suo osservatorio – rappresentano i maggiori problemi nel funzionamento dei parchi nazionali.

Che cosa significa un parco senza presidente?

Manca il rappresentante legale. La legge 394 del 1991 direbbe una cosa precisa, in merito: alla scadenza del mandato di un presidente, questi viene prorogato per 45 giorni, che sarebbe il tempo necessario a nominare il successore. Questo però non accade mai: quando si libera un posto da presidente, se ci sono sul territorio 2, 3 o 5 persone che ambiscono a occupare quel ruolo, magari sostenuti da sponsor diversi, non necessariamente di natura politica ma anche nel mondo associativo, la politica decide di non decidere. Questo riguarda tutti i ministri dell’Ambiente che si sono succeduti negli ultimi vent’anni. Perché accade questo? Se un ministro o un presidente di Regione nominano d’intesa un presidente, scontentano gli altri. Spesso è complessa l’intesa con la Regione, a volte si instaurano meccanismi ancor più complicati. La riforma avrebbe permesso di forzare i tempi dell’intesa, lasciando al presidente del Consiglio dei ministri il diritto di nomina passato invano un certo periodo di tempo.

C’è un problema di governance, e riguarda anche l’approvazione dei Piani del parco.

C’è un vulnus, legato alle Regioni: il Piano del parco, redatto dall’ente parco, e quindi adottato, dev’essere approvato dalla Regione o dalle Regioni nel cui territorio ricadono i parchi nazionali. La situazione attuale è che alcuni giacciono da 7 o 8 anni negli uffici delle Regioni. E restano lì. La modifica della legge avrebbe potuto risolvere questo problema, perché dava un anno di tempo alle Regioni per approvare il Piano del parco, dopo di che si dava approvato con il silenzio assenso. La questione aperta con il Piano è che esso fa delle scelte, che come sempre dividono: ciò di cui mi sono reso conto, è che spesso la politica, quando vede che c’è divisione, difficilmente decide. Preferisce lasciar cadere la cosa. Oggi il ministero dell’Ambiente potrebbe diffidare la Regione, intimando l’approvazione, ma questo non è mai stato fatto.

Secondo alcune associazioni ambientaliste, la riforma avrebbe acuito il condizionamento della politica – e in particolare di quella locale – sui parchi. Ciò non avrebbe aggravato questi problemi?

Con la legge vigente il direttivo di un parco è composto da 9 persone: c’è il presidente, e ci sono altri 8 membri, 4 dei quali nominati dalla comunità del parco. Gli altri sono indicati da ministero dell’Ambiente, dell’Agricoltura, dall’Ispra, delle associazioni ambientaliste. L’unico cambiamento riguarda il rappresentante nominato dal ministero dell’Agricoltura, che sarebbe stato designato dalle associazione degli agricoltori. In passato, il Mipaaf ha spesso nominato amministratori locali, come vice -sindaci o assessori. A mio avviso questo eccessivo spostamento verso gli enti locali non c’era nella realtà. E in ogni caso, la riforma non è più in agenda.
All’ultimo congresso lei ha promosso due temi: l’esigenza di rendere flessibili i bilanci dei parchi e quello di nuove assunzioni.
Ho passato tre anni nel board di EuroParc Federation, ho avuto modo di visitare numerosi Paesi Ue, di approfondire altri modelli di gestione. Credo sia opportuno ragionare per budget: il parco presenta un bilancio, che viene approvato dal ministero, ma poi l’organizzazione della spesa è lasciata all’ente parco. Un anno potrebbe aver bisogno di risorse per la manutenzione sentieri, quello successivo per l’acquisto di nuovi mezzi (elettrici). I nostri parchi invece sono oggi vittima dei vincoli di spesa introdotti nel 2010. Le faccio un esempio: per le spese di promozione, ogni ente pubblico non poteva spendere più del 10% di quanto speso nel 2009. Questo è concettualmente assurdo: il paradosso è avere risorse in cassa e non poterle spendere. Abbiamo poi un problema di risorse umane: c’è carenza di risorse tecniche, come ha evidenziato anche il recente check-up del Wwf. Mancano veterinari, biologi, mancano forestali: negli organici di alcune parchi, con una presenza importante di figure amministrative, non ci sono figure fondamentali per la tutela della biodiversità. Il ministro dell’Ambiente Costa ha promesso che la legge di bilancio garantirà le risorse per assumere 55 figure, poco più di 2 a parco in media. Potrebbe essere una prima risposta importante, se potremmo – come mi sembra di aver capito – indirizzare queste assunzioni verso le figure di cui più necessitiamo.

Molti enti parco vedono nel turismo una minaccia. I numeri dicono 27milioni di presenza turistiche, che valgono 5,5 miliardi di euro e creano 105mila posti di lavoro.
Abbiamo promosso la Carta europea del turismo sostenibile, un processo che porta pubblico e privato a lavorare in un’ottica di turismo sostenibile. Le presenze turistiche servono, e non limitano il lavoro e il ruolo dei parchi nella protezione della biodiversità. Posso citare tanti esempi: lo stambecco, che sta ripopolando l’arco Alpino, il lupo, che sull’orlo dell’estinzione e si è salvato nel parchi appenninici, gli orsi marsicani, il Falco pescatore, che era una specie estinta in Italia negli anni Sessanta ed è stato re-introdotto grazie al parco regionale della Maremma. Ma c’è anche il Camoscio appenninico. Questo lavoro di conservazione lo si deve ai parchi. Possiamo fare di più e meglio, certo. Ho denunciato io stesso che spesso si sta attenti alle specie più carismatiche, come il lupo, e meno a quelle che oggi hanno vere esigenza di conservazione. Parlo di coleotteri in via di estinzione, o invertebrati e rettili che però hanno scarso potere evocativo.