Gli Stati uniti sono pronti a cambiare politica nei confronti dell’America latina e in particolare verso Cuba, oggetto da più di cinquant’anni di un embargo unilaterale? Due dichiarazioni, una del presidente Barak Obama, l’altra del segretario di Stato John Kerry, hanno nei gorni scorsi avuto larga eco mediatica e suscitato plausi, ma anche molto scetticismo parte della sinistra latinoamericana.

Il primo a segnalare di essersi accorto che nel Sud del continente americano vi sono stati cambiamenti significativi è stato il leader della Casa bianca. Obama si è riferito a Cuba dove sono in corso una serie di riforme economiche e sociali promosse dal governo di Raúl Castro e che, a dire del presidente statunitense, rendono necessario «attualizzare» la politica degli Usa nei confronti dell’Avana. «Bisogna essere creativi», ha affermato mentre era a Miami nell’eterna campagna per raccogliere fondi per il suo partito. «E dobbiamo continuare ad attualizzare le nostre politiche», visto che – ha continuato – «quando (Fidel) Castro è andato al potere io ero appena nato, ragione per cui non ha senso pensare che le politiche decise allora siano efficaci oggi, nell’era di Internet, Google e dei viaggi internazionali».

Una politica imperiale fallimentare

L’essenza della strategia degli Usa nei confronti di Cuba definita all’inizio degli anni Sessanta dello scorso secolo è semplice: un embargo (in realtà un blocco totale dell’economia) con lo scopo di – come recita un documento del Dipartimento di Stato dell’epoca – «creare fame, miseria e disperazione tra i cubani in modo che si ribellino e abbattano la rivoluzione». Una politica imperiale che, è ormai agli occhi di tutti, ha generato enormi difficoltà ai cubani ma ha totalmente fallito il suo scopo. E che è condannata dalla quasi totalità degli stati membri dell’Onu (all’ultima votazione solo in due hanno votato contro la mozione che richiede la fine dell’embargo: Usa e Israele).

Questo non ha impedito che una decina di presidenti degli Usa l’abbiano applicata con determinazione e criminale volontà imperiale di affamare un popolo non sottomesso. Ottenendo come unico risultato di rafforzare l’aura di Fidel Castro come difensore della sovranità nazionale cubana e di raccogliere attorno a questa bandiera politica la stragrande maggioranza dei cubani. Lo stesso Obama l’ha applicata durante il suo primo mandato e dopo la sua rielezione ne ha confermato la validità, anche se ha moderato le misure più radicali decise dal suo predecessore, Bush junior. Oggi. il presidente americano si dice pronto a ripensamenti verso l’Avana ma, curiosamente, usa lo stesso linguaggio del suo omonimo cubano, Raúl Castro: parla cioè di «attualizzazione» e non di «cambiamenti» politici, probabilmente per non ammettere il fallimento di cinquant’anni di strategia del blocco.

Naturalmente è difficile stabilire se la dichiarazione di Obama comporterà conseguenze nelle relazioni bilaterali o fa parte di una retorica delle buone intenzioni senza conseguenze pratiche, come fu la dichiarazione del presidente nero di chiudere la prigione di Guantanamo, nell’estremo oriente di Cuba. La reazione del vertice cubano è quella di prendere tempo e verificare nei fatti, pronti, come ha affermato in più occasioni il presidente Raúl, a trattare con Washington «su un piano di parità», non celando però un ben motivato scetticismo. L’ex diplomatico cubano, e esperto nelle relazioni con gli Usa, Carlos Alzugaray, ha dichiarato al corrispondente della Bbc che «è comunque importante il fatto che Obama abbia riconosciuto pubblicamente che a Cuba sono in corso cambiamenti, contraddicendo i discorsi dell’estrema destra (Usa) e di personaggi (dell’opposizione cubana) come Fariñas e Berta Soler (entrambi si sono incontrati con Obama a Miami, ndr) i quali sostengono che a Cuba non cambia nulla».

Senza dubbio, nella scala delle priorità in politica estera per Obama, impegnato nel far passare l’accordo storico raggiunto con l’Iran, la questione cubana non è urgente. Ma in un subcontinente latinoamericano dove sono in corso profondi cambiamenti, la questione di Cuba mantiene un grande valore simbolico. Per questo gli analisti del Cuba Study Group di Washington hanno raccomandato al presidente Usa di «attuare passi più audaci, di rompere l’isolamento, rafforzare il crescente settore imprenditoriale a Cuba ed eliminare le sanzioni dimostratesi improduttive e che rappresentano un ostacolo per ulteriori e più profondi cambiamenti nell’isola».

Più secco e chiaro l’intervento del Segretario di Stato, Kerry, il quale ha dichiarato che «l’era della dottrina Monroe è finita». Elaborata e imposta nel 1823 dal (quinto) presidente Usa, James Monroe, la suddetta dottrina, sintetizzata nella frase «l’America agli americani», è servita come base ideologica per giustificare tutti gli interventi unilaterali di Washington in qualunque paese del continente quando fossero «in pericolo gli interessi» degli Usa. «La (nuova) relazione che cerchiamo e per la quale abbiamo lavorato duro non è una dichiarazione degli Stati Uniti su quando e come interverranno negli affari di un altro Stato americano, ma (l’affermazione) che tutti ci vediamo su un piano di parità, compartendo responsabilità e cooperando in tema di sicurezza», ha affermato Kerry, la settimana scorsa, in un discorso pronunciato nella sede dell’Organizzazione degli Stati americani (Oea). Per la verità lo stesso concetto era stato espresso da Barak Obama al V Vertice delle Americhe, nel 2009 a Trinidad e Tobago. In quattro anni il volto dell’America latina è cambiato, ma la politica Usa si è mantenuta uguale (come ha dimostrato il golpe in Honduras nel 2009). Cambierà nel prossimo futuro visto che Obama è libero dai condizionamenti di una rielezione, o le dichiarazioni di Kerry resteranno lettera morta? È quello che si chiedono molti analisti. E non solo: una nuova era nelle relazioni bilaterali e più in generale fra Nord e Sud del continente è richiesta a viva voce, tra gli altri, da Dilma Roussef, presidente del Brasile, sempre più intenzionato ad essere una potenza emergente.

Scetticismo di rigore

Nella sinistra latinoamericana, lo scetticismo sembra di rigore. Una cosa sono le dichiarazioni, altra i fatti, sostiene in un’intervista al quotidiano del pc cubano Granma, Jorge Hernández Martínez, direttore del Centro di studi emisferici e sugli Stati Uniti dell’Univrsità dell’Avana. «Con il passare del tempo si verifica che (tali dichiarazioni di dirigenti Usa) non sono altro che espressioni retoriche e demagogiche». Il quotidiano (di sinistra) messicno La Jornada ha bollato la dichiarazione di Kerry come «incoerente e financo grottesca», visto che lo stesso Segretario di Stato pochi mesi fa ha continuato a definire l’America latina come «il cortile di casa» degli Usa. Il quotidiano riconosce però che tale presa di posizione costituisce «un certo riconoscimento implicito» della perdita di influenza degli Usa nel Sud del continente. Fatto questo, sostiene La Jornada, che non dipende da una decisione presa a Washington, ma dalla volontà dei popoli latinoamericani di recuperare e difendere la propria sovranità. Un’analisi, questa, condivisa dal professor Hernández: «L’America latina è cambiata, si sono imposti processi, governi e movimenti sociali di sinistra assieme a forti iniziative di integrazione (del subcontinente), però, fino a oggi, non si apprezza una reale volontà degli Stati Uniti di modificare» la loro politica latinoamericana.