i multe, contravvenzioni e sanzioni pecuniarie assortite abbiamo tutti esperienza. Ma adesso ne vediamo una nuova: la multa da disobbedienza. Chi ricopre una carica nel nome M5S rischia un salasso di 150.000 euro se non si attiene alla linea, non obbedisce ai precetti dei capi o della rete, o non si sottopone per atti di particolare rilievo all’occhiuto controllo preventivo di un team di legali. Certo, è l’onda lunga del caso Quarto, ancor più dopo la decisione del sindaco Capuozzo di rimanere in carica. Ma già era evidente che il metodo M5S di individuare i propri rappresentanti nelle istituzioni fosse inefficace.

Procedimenti di selezione rimessi alla partecipazione – sostanzialmente al di fuori di qualsiasi controllo – di qualche decina o centinaio di persone non pongono filtri. Né molto aiuta mettere online curricula e video autogestiti dai candidati. Ma la vera domanda è se il rimedio ora prospettato risolva il problema. E la risposta è negativa.

La disciplina di gruppo o di partito per chi ricopre una carica pubblica è storia antica. Ed è facile ad esempio capirne la funzione in un parlamento che non voglia essere un club di notabili. Come è ovvio che nasce una inevitabile tensione verso l’esercizio della funzione pubblica.

La “disciplina” cui l’art. 54 Cost. richiama il titolare di una carica non è certo quella di partito, come dimostra il divieto di mandato imperativo, parimenti posto in Costituzione dall’art. 67, o il principio di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97. In principio, chi gestisce la cosa pubblica è vincolato all’osservanza di norme, e non di istruzioni provenienti da soggetti politici. Non fa alcuna differenza che vengano dal capo carismatico, da un gruppo dirigente, o da assemblee di popolo. Qui si radica la differenza tra la rappresentanza politica, in cui il rappresentante sceglie liberamente come dare voce agli interessi del rappresentato, e la rappresentanza di volontà, in cui il rappresentante è mero esecutore del mandato affidatogli dal rappresentato.

Volendo rimanere nel quadro di una democrazia rappresentativa e della Costituzione vigente, i titolari di cariche pubbliche non possono essere assoggettati a richieste o istruzioni vincolanti da parte di soggetti politici. Tuttavia, un problema esiste. La prova è data dai cambi di casacca o di affiliazione politica – centinaia – tra i parlamentari in carica. Un tempo avrebbero stroncato la carriera politica dei protagonisti. Oggi sono spesso il trampolino di lancio per prestigiose poltrone, anche di governo, perseguite con tenacia attraverso slalom da campionato del mondo.

Ma la risposta non è nelle multe. In principio, e perché si può dubitare della effettività. I partiti o movimenti sono infatti formalmente soggetti privati. L’impegno con loro assunto da un candidato si pone come un qualunque contratto. E si può certo dubitare che il libero esercizio di una funzione pubblica possa lecitamente porsi ad oggetto di una trattativa tra privati. Inoltre, può ben accadere che mancare all’impegno, ad esempio votando in dissenso su un tema rilevante, rechi danno all’immagine del soggetto politico. Ma rimarrebbe sempre nell’ambito di una inadempienza contrattuale tra privati. E finirebbe, in altre parole, a causa.

Quale giudice conclusivamente condannerebbe al pagamento di cifre rilevantissime chi avesse svolto la propria funzione nel rispetto di leggi e regolamenti, magari con la copertura di norme costituzionali sul libero esercizio del mandato?

Quale giudice condannerebbe per la disobbedienza al capo, o anche al popolo sovrano riunito nell’agorà virtuale di internet? Non sarebbe necessario un principe del foro per difendere le tasche di chi avesse accettato la candidatura firmando impegni. L’effettività del deterrente è davvero modesta. Sarebbe rafforzata solo anticipando il versamento della cd multa all’assunzione della carica, con promessa di restituzione a fine mandato per chi si mantenesse mondo da ogni peccato. Ipotesi ovviamente impensabile. Già così il danno all’immagine di M5S è considerevole, e consiglia un cambio di rotta.

Il problema di una buona selezione del ceto politico è grave, ma non esistono scorciatoie. Presuppone una struttura di partiti politici sufficientemente organizzati e solidi, che propongano al corpo elettorale un progetto e le persone chiamate a realizzarlo, assumendosene la responsabilità. Un obiettivo lontanissimo nelle condizioni oggi date, come dimostrano i tortuosi tormentoni delle candidature a ogni livello. Sarebbero necessari interventi, in specie sulle architetture istituzionali e sul sistema elettorale, volti a rinsaldare un sistema di partiti organizzati. Le scelte fin qui messe in campo vanno in senso opposto.

In ogni caso, le invenzioni sono inutili, o persino dannose. Lo dimostra su altro versante la vicenda Pd, che ha visto comparire i cinesi anche nelle primarie di Milano. Non importa che non siano stati decisivi. Il punto è che c’erano. Un tempo, giusto o sbagliato che fosse, la sinistra guardava con interesse ai lontani paesi dell’Est per la loro struttura sociale, politica, economica. Oggi, più modestamente, si portano i cinesi a votare nelle primarie.