Non si distolga l’italiano dal Ferragosto, se non per picchi di sdegnata emotività televisiva, per il montaggio-minuetto delle dichiarazioni di esponenti politici obbligati a rincorrere il mondo, per chiedere all’esperto di turno (il maschile è d’obbligo) «ma com’è potuto accadere?», con l’accortezza di non mostrare i paraocchi assai generosamente forniti fino a ieri.
L’emirato risorge sulla storica «tomba degli imperi», e tutti a chiedersi dei «nuovi talebani». Quelli che invece che bandire internet lo usano per scovare i nemici, quelli che invece che bandire l’istruzione femminile la segregano.

A Kabul e nelle città afgane si gridava Allahu Akbar dai tetti per rubare il copione all’avanzata talebana, mentre oggi il dissenso si manifesta con la bandiera nazionale (la repubblica islamica). L’ampia e istruita società civile emersa in questi anni si nasconde e cerca la fuga: Bruxelles ripete che bisogna evitare che «si mettano in pericolo», e così, per impedire che si facciano male, in Grecia già hanno eretto 40 chilometri di muro, dispiegando i cannoni sonici per disperdere coloro che fossero sfuggiti al muro costruito dai turchi.

IL TUTTO NEL VUOTO di iniziativa politica che Emanuele Giordana ha denunciato venerdì sul manifesto, e che inizia col profilo basso (quasi omissivo, nell’assenza di dibattito sul ritiro dei nostri soldati) del governo Draghi, con il premier al telefono in cerca di un G20 dedicato. La Nato parla di ‘difficili lezioni da apprendere’, mentre i governi europei procedono in ordine sparso, le destre allineate con Orbán a lavarsi pilatescamente le mani.

LA NARRAZIONE dominante è cacofonia: sosteniamo gli afgani, e soprattutto donne e ragazze, ma non vogliamo i migranti; tutti gli afghani esposti avranno protezione, ma non se arrivano illegalmente; i talebani sembrano rasserenati, e comunque non deporteremo più forzosamente gli afghani, anche se forse sì, dipende, vediamo.

Rari gli sforzi di dibattito fuori dai binari della sicumera del geostratega di turno o del panico morale, magari pensando a un ruolo dell’Unione Europea nella risposta: magari tramite la Risoluzione 2001/55CE sulla protezione temporanea, la quale copre la possibilità di corridoi umanitari, e puó essere attivata su domanda degli stati membri tramite comunicazione di quanti cittadini afghani sono disposti ad accogliere. Avrebbe il vantaggio di dare quantomeno base legale all’accoglienza, oltre ad imporre solidarietà anche finanziaria, svincolando l’UE dall’ombra controversa della agenzia Frontex.

Certo, mentre a Roma si cerca di redigere liste di evacuazione, mentre le forze speciali italiane sono presenti nel caos di Kabul, qualcosa si è mosso sul versante della società civile: ci sono gli appelli, ci sono gli attivisti pro-Rojava (già traditi dal quasi-ritiro americano dalla Siria, per la gioia di Erdogan) che invita a sostenere la storica Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (Rawa), il Coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane (Cisda), o il Partito Hambastagi (solidarietà) di Selay Ghafar. Sul tema cruciale dei dissidenti e del segmento istruito dei rifugiati – studenti, ricercatori, docenti – si muove la Conferenza dei Rettori, ed è indispensabile uno stretto coordinamento con i ministeri competenti e con l’Agenzia Onu per i rifugiati. Per sua parte, la sezione italiana della rete Scholars at Risk, sta raccogliendo richieste di supporto da studiosi e studiose a rischio, e alcuni atenei hanno annunciato iniziative di apertura e borse. A ciascuno, insomma, la sua parte.

C’È PERÒ QUALCOSA di più che s’impone. L’Afghanistan non è una crisi qualunque. In Afghanistan si è giocata in questi decenni una partita fondamentale circa chi fosse il nemico e con quali mezzi combatterlo. Una guerra ventennale che ha fatto centinaia di migliaia di morti, in massima parte civili. La vita di tutti noi – dalla circolazione di cose, idee e persone, fino agli esiti elettorali – è (stata) coinvolta in questa complessa trama. Se con il nuovo Emirato Islamico dell’Afghanistan e l’umiliazione occidentale siamo oggi a uno scarto, all’apertura di nuovi scenari, è perché stiamo raccogliendo i frutti avvelenati di interventi sbagliati, rispetto ai quali non basta chiamarsi fuori reiterando l’aver avuto ragione. Per Kabul oggi passa una storia che premia i regimi autoritari e segna i confini dello spazio democratico, toccando l’esistenza di diritti a fondamento universale. I ‘nuovi talebani’ sono un movimento armato composito, che deve il proprio successo agli errori della Guerra al Terrore e alla propria capacità di creare alleanze locali anche inedite. Oggi il clan talebano più spregiudicato, l’ala militarista degli Haqqani, responsabile delle bombe nelle città, ha preso controllo del Nds, gli apparati di sicurezza, e questa non è una buona notizia. Il caos seguito al ritiro occidentale significa, fra le altre cose, interruzione delle fonti informative. Sostenere, per quanto sarà possibile, le reti del giornalismo afghano diventa più che mai prioritario.

È NECESSARIO RIANIMARE qua una risposta capace di lettura politica degli eventi. Capire che quando i governi parlano di stabilizzazione stanno in realtà parlando di compressione dei diritti, di esternalizzazione delle frontiere nella gestione dei rifugiati. Il nemico talebano sono in realtà diversi nemici che si sono coalizzati durante anni di guerra costellati di crimini impuniti, e che hanno ingrassato una classe dirigente e signori della guerra corrotti e pronti alla fuga. L’emirato manda un messaggio circa la pazienza strategica e della duttilità tattica ad altri fronti di insorgenza islamista, dal Sahel all’Asia. È solo smontando politicamente – non perché adoperano «toni distesi», ma con una strategia di ingaggio negoziale che già parte da un muro di sanzioni (sono considerati alla stregua di Al Qaeda) – che si potrà smontare la Guerra al Terrore che ha reso «popolari» i talebani: una risposta che continua a nutrire fronti, a nutrire colpi di stato, ad innescare implosioni.