Anomalo il comunicato della Corte costituzionale sul conflitto tra poteri dello Stato presentato dal gruppo del Pd al Senato contro le modalità di approvazione della legge di bilancio.

Il comunicato dichiara l’inammissibilità, ma poi ci tiene a dire che i singoli parlamentari possono fare ricorso. Giustifica la compressione dei lavori parlamentari, ma poi paventa una futura incostituzionalità se si dovessero adottare in di nuovo simili modalità.

Bisognerà aspettare le motivazioni per valutare le argomentazioni che sorreggono queste asserzioni apparentemente tra loro scoordinate. Per ora limitiamoci ad alcune osservazioni più generali di politica del diritto.

Purtroppo si conferma quel che si temeva: chiamare in causa la Corte s’è rilevata una mossa politicamente controproducente e costituzionalmente azzardata.

Infatti, nell’immediato almeno, non si è ottenuto alcun risultato se non quello di legittimare (ma solo per questa volta?) il comportamento scellerato dell’attuale maggioranza; farsi ricordare le proprie responsabilità passate (le «consolidate prassi parlamentari» di cui parla il comunicato della Consulta); farsi dichiarare inammissibile il ricorso (ma domani chissà, forse sarà possibile accedere alla Corte, magari quando l’attuale minoranza tornerà al governo e a far ricorso sarà l’attuale maggioranza. Questo sì che potrebbe considerarsi un esempio da manuale di eterogenesi dei fini politici).

Diverso il discorso per il medio periodo. La prospettiva rimane assai incerta. Vedremo se le motivazioni sapranno chiarire le ipotesi di ricorso individuale dei parlamentari, che rappresenta la principale novità annunciata nel Comunicato.

Vedremo, inoltre, quale sarà l’ambito di sindacato che la Corte si riserverà sugli atti interni della Camere e, in particolare, sulle modalità decisionali delle leggi. Anche questa potrebbe rappresentare un’innovazione rispetto alla chiusura sin qui pressoché totale sul sindacato degli interna corporis acta degli organi costituzionali. Quel che può dirsi a seguito del Comunicato è che lo spazio per tali interventi sarà presumibilmente molto ridotto. Infatti, se oggi è stato ritenuto inammissibile il ricorso formulato in base all’appartenenza ad un gruppo, ma evidentemente anche a titolo individuale, di 37 senatori, ciò vuol dire che domani solo in casi eccezionali la decisione potrà essere diversa e si consentirà al singolo parlamentare di opporsi alle violazioni «gravi e manifeste» delle prerogative che la Costituzione attribuisce loro.

D’altronde, la stessa gravissima compressione nelle modalità di approvazione della legge di bilancio 2019, che ha visto annullare la discussione, svuotare il ruolo delle commissioni, impedire ai singoli di esercitare le proprie funzioni parlamentari, che pure è stata presa in esame dalla Corte (fatto anomalo in un giudizio di ammissibilità, che non dovrebbe spingersi a considerazioni di merito, ma aspettiamo anche su questo di leggere la motivazione) non ha suscitato altro che un monito. C’è da chiedersi cos’altro deve succedere di più grave perché la Corte possa far valere la sua giurisdizione nel merito.

Non mi sembra, dunque, che si possa confidare più di tanto in futuro sul ruolo del giudice costituzionale per dirimere tale genere di conflitti.

In una certa misura è questo un esito inevitabile. Lo è nella misura in cui la politica chiede alla giurisdizione (quella costituzionale, ma spesso anche a quella ordinaria) di supplire alle sue debolezze. La giurisdizionalizzazione del conflitto politico è un male in sé, poiché segnala l’incapacità dei cittadini associati liberamente in partiti di svolgere il ruolo che la costituzione assegna loro, ovvero di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

È questa, mi sembra, la lezione di fondo che dovremmo trarre dallo sfortunato esito del ricorso alla Consulta. Aver voluto trascinare la Corte al centro del conflitto politico chiedendo ad essa di giudicare i comportamenti dell’attuale maggioranza sulla legge di bilancio mostra impietosamente il fallimento degli ordinari strumenti che partiti, cittadini e forze sociali in generale devono ricercare per opporsi nelle sedi proprie, in Parlamento e fuori da esso.

Ogni volta bisogna ricordarlo: i garanti della Costituzione – la Corte costituzionale, ma anche il Presidente della Repubblica – sono l’ultima fortezza a difesa della superiore legalità costituzionale. In questo ruolo decisivo di salvaguardia, però, non possono essere lasciati da soli. Quando la politica tace, ovvero fa solo spettacolo, non può pretendersi che siano i garanti a urlare. Forse non è neppure auspicabile. Non è ai soli giudici che spetta la difesa dei principi della costituzione, in primo luogo spetta a tutti noi. E questo è il vero problema di oggi: la politica assente