La mano di Alemu Aga sfiora le corde della begena etiope, quella di Paco De Lucia la sua chitarra; impugnano la penna le dita di Franco Donatoni nel comporre Still mentre le note si succedono sullo spartito: un racconto musicale fatto di dettagli, sguardi che si avvicinano e si allontanano restituendo una visione d’insieme che ha un proprio ritmo tra tempi, respiri o pause. È dagli anni Settanta che Silvia Lelli e Roberto Masotti, compagni nella vita personale e nella professione di fotografi con la sigla Lelli e Masotti, collezionano scatti per il loro immenso archivio (oltre 400mila immagini) che proprio quest’anno è stato riconosciuto d’interesse culturale dal ministero per i beni e le attività culturali. «È nato con l’idea che abbiamo sempre avuto che fotografare le performing arts, campo in cui piaceva a entrambi navigare con curiosità, rappresentasse anche qualcosa che storicamente rimaneva per il futuro», afferma Silvia Lelli.
NON SOLO PERSONALE
Curata da Marco Pierini e promossa dal comune di Milano nell’ambito della 3/a edizione di Photo Week, la mostra «Musiche» (fino al 23 giugno, catalogo SilvanaEditoriale) propone nelle stanze dell’Appartamento dei principi nel Palazzo Reale di Milano una selezione di 110 scatti realizzati a partire dai loro esordi fino al 2019. Immagini in bianco e nero che per gli autori, come sostiene il curatore, «si configura non come tratto stilistico ma, piuttosto, come scelta poetica».
Anche nelle fotografie più recenti la conversione in bianco e nero è un’esigenza dettata dall’affermazione di una convivenza democratica fra tutte le esperienze performative, musicali e teatrali, che affiorano in tutta la loro dirompenza. Dalla lirica al jazz, dall’improvvisazione al folk tra le mura dei teatri e dei conservatori più antichi o nelle rappresentazioni in strada, nelle piazze, sulla spiaggia durante le tournée e i festival: una memoria che è personale e collettiva.


Darryl Hall e Miles Davis, Umbria Jazz, Perugia, 1985 (foto ©Lelli e Masotti) 

«Non c’è volontà di catalogazione, di elenco, di tassonomia – affermano Lelli e Masotti -. C’è una serie che si compone e si scompone, un percorso personale ed evocativo che ricorda momenti inesorabilmente fissati». Entrambi ravennati studiano a Firenze (Silvia architettura e Roberto industrial design), si sposano nel ’72 e si trasferiscono prima a Bologna e poi a Milano, dove iniziano a occuparsi di fotografia collaborando con Gong, la rivista di musica e cultura alternativa, voce delle sperimentazioni più all’avanguardia degli anni Settanta, dal rock progressivo alla new wave. Da Lucinda Childs in Einstein on the Beach di Philip Glass e Robert Wilson alla Fenice di Venezia (1976) a Darryl Hall e Miles Davis a Umbria Jazz (1985), tanti sono i grandi personaggi ritratti da Silvia Lelli e Roberto Masotti durante le prove o sul palco presenti anche nelle loro innumerevoli pubblicazioni: James Brown, Franco Battiato, Mitislav Rostropovich, Carlos Santana, Isaac Stern e Claudio Abbado, Demetrio Stratos, Lou Reed, John Cage, Yo-Yo Ma… Pur non avendo avuto una formazione musicale Roberto, poi, collabora talvolta con gruppi come improWYSIWYG (insieme a Gianluca Lo Presti) realizzando performance live visual e con la formazione variabile dedita all’improvvisazione Tai no-orchestra.
Qual è per voi la maggiore difficoltà nel cercare di rendere il suono attraverso l’immagine fissa?
(Masotti) È un lavoro lento, paziente, molto intenso che si collega a momenti che sono una somma di attimi di scatti. Però abbiamo capito che, quando come qualche critico afferma «queste fotografie risuonano», non è perché riescono a evocare momenti che viviamo intensamente, cercando di catturarli dal punto di vista gestuale espressivo e musicale. Quello che si ferma, in realtà, è un qualcosa che non è l’attimo decisivo, ma gli sta attorno. È questa la capacità delle foto di risuonare e poter evocare.
(Lelli) Hai parlato di cogliere la musica nelle immagini statiche, io aggiungerei immagini mute. Ho messo a punto che, sia per Roberto che per me, le fasi sono queste: la prima parte è l’ascolto in cui, il più delle volte, non si scatta. Poi c’è l’attesa che per me forse è la parte più bella, quando i musicisti provano e tu puoi scattare, ma ti prendi ancora del tempo per capire. C’è uno scambio di sguardi con loro, un capirsi senza parlarsi. Capisci fino a dove puoi spingerti quando fotograferai e quando ti devi fermare. Infine, c’è quel momento in cui vuoi scattare perché si è formata nella tua mente l’immagine che fa parte di ascolto, attesa, comprensione. Senti di doverlo fare, ma a volte ti devi trattenere perché ci sono condizioni in cui è impossibile fotografare. Però rimane il fatto che in quel momento si compone, un po’ magicamente, quell’immagine che andavi cercando. Se, poi, l’immagine sta cambiando attendi di nuovo finché non torna.
(Masotti) C’è anche un fatto di vicinanza e distanza. Durante le prove ci si può permettere una maggiore vicinanza e poter spartire una complicità con i personaggi in scena. Altre volte rimane una distanza che deve essere quella del concerto, in cui ognuno è impegnato a portare a casa il proprio risultato artistico.
In mostra c’è un’immagine del 1995 in cui il compositore Paul Giger suona sulle Dolomiti al Rifugio Torre di Pisa, sulla terrazza panoramica di Latemar a 2671 metri…
(Masotti) Abbiamo seguito il progetto I Suoni delle Dolomiti fin dalla prima edizione. L’idea era di fruire della musica in alta quota. Era un festival che si apriva a varie tendenze con musicisti inclassificabili, di confine. Con Giger fu una bellissima esperienza anche perché piovigginava e il violino entrava e usciva dalla custodia. Impagabile, poi, quello scenario naturale. In quale teatro troveremmo una scenografia così?
Invece, la foto più recente, datata marzo 2019, è un momento di una silent opera…
(Lelli) È un’opera ascoltata in cuffia, Vixen, ideata dalla regista inglese Daisy Evans con la direzione musicale di Stephen Higgins partendo da La piccola volpe astuta di Leoš Janacék. Nell’ambientazione delle Gallerie di Piedicastello di Trento entrando nello spazio scenico al pubblico venivano consegnate le cuffie. All’inizio avevo molti dubbi, se si toglie la cuffia si rimane spiazzati perché i cantanti cantano nel nulla, solo rimettendola si è dentro l’opera. Ma ci si può spostare con i cantanti, muovendosi nello spazio. Un’esperienza meravigliosa!
Tra i numerosi personaggi, tra cui Keith Jarrett e Riccardo Muti, che avete seguito nel tempo c’era anche Demetrio Stratos di cui un nucleo di foto è stato recentemente esposto nella mostra «Il corpo della voce. Carmelo Bene, Cathy Berberian, Demetrio Stratos» a Palazzo delle Esposizioni a Roma…
(Masotti) Demetrio Stratos era un amico. È stato uno di quei personaggi su cui abbiamo lavorato entrambi in momenti diversi, i suoi scatti sono anche nel libro Stratos e Area che abbiamo pubblicato nel 2015. Ancora oggi è uno dei miti operanti.
(Lelli) L’avevamo conosciuto per via del gruppo Area, poi Demetrio si era staccato e aveva cominciato il lavoro performativo sulla voce con una potenzialità incredibile di cui era consapevole e che stava ancora scoprendo e sperimentando lavorando con John Cage e Merce Cunningham. L’ultima immagine che abbiamo di lui, intendo la nostra immagine personale non fotografica, è quando lo andammo a trovare al Memorial Hospital di New York nel 1979. Era seduto sul letto e diceva «sto bene, guardate come sto bene». Io lo guardavo ed era il solito Demetrio che stava bene, possente, grosso. Siamo usciti di lì sicuri che ce l’avrebbe fatta. Invece, dopo dieci giorni non c’era più.

Silvia Lelli e Roberto Masotti (foto Manuela De Leonardis)