Il 13 dicembre 1928 Federico García Lorca tenne una conferenza dal titolo assai curioso, Añada. Arrolo. Nana. Vou veri vou alla Residencia des Estudiantes di Madrid, centro nevralgico della nuova cultura spagnola, dove poco prima aveva intonato uno dei suoi interventi in prosa più importanti, vera dichiarazione di una nuova poetica: La imagen poética de don Luis de Góngora. Ora esce da Ibis una precisa edizione di questo testo peculiare, in cui lo scrittore spagnolo esplora le radici di immagini poetiche della terra iberica: Ninnenanne spagnole (per le precise cure di Paolo Pintacuda, che scrive in apertura una interessante nota filologica sui manoscritti, dando conto anche delle precedenti edizioni italiane del testo, pp. 110, € 9,00).

Il punto di partenza è una dichiarazione di estetica: «In tutti i viaggi che ho fatto, un po’ stanco di cattedrali, di pietre morte, di paesaggi con l’anima, etc, etc, mi sono messo a cercare gli elementi vivi e duraturi, dove non si congela il minuto, che vivono in un tremante presente. Tra quelli infiniti che esistono, io ne ho seguiti due: le canzoni e i dolci». In questa prospettiva, per conoscere Granada «è molto più utile, pedagogico, mangiare il delizioso alfajor di Zafra o le torte alajú delle monache di Santiago».
Nelle ninnenanne locali Lorca vede una differenza capitale con quelle del Nord, di cui qualcosa risuona nell’area Basca: «il cuore dell’Europa stende grandi teloni grigi davanti a suoi bambini affinché dormano tranquillamente. Doppia virtù di lana e campanacci. Con il più grande tatto».

Ben altro tono, spesso aggressivo, hanno le versioni che segue nei quartieri popolari delle città del suo paese, o che sente intonare dalle balie che portano le figure della tradizione iberica antica (insegnando le gesta di Gerineldo, di don Bernardo, di Tamar o degli amanti di Teruel), in un mondo che sta perdendo le proprie radici. Nelle Asturie, nel paese di Navia, si intona un canto che invoca Dio per togliere dal collo alla madre quel figlio, amatissimo, ma che la miseria e le pessime condizioni di vita avrebbero dovuto scongiurare che arrivasse.

Il meraviglioso del mondo dell’infanzia è nella visione del poeta lirico, che dice di avere visto una fata nel 1917 nella stanza di un bambino piccolo, un suo cugino. «Stava appollaiata sulla tenda, splendente come se fosse vestita con un abito di occhi di pernice, ma mi è impossibile ricordare le sue dimensioni e il suo volto».

Oggetto di questa prosa notevole, che tende costantemente alla poesia, è la descrizione del legame tra madre e figlio, che passa dal canto, come anche dalla frequentazione dei vari babau, arrivati a spaventare l’infante. Il Coco, il Bute, la Marimanta, la regina mora e la gitana sono gli spauracchi più utilizzati. Sebbene il testo sia talvolta meno aggressivo, le melodie sono sempre drammatiche: nell’indagine sulla formalizzazione del rapporto tra madre e figlio, Lorca esplora le radici della poesia del suo paese e le strategie con cui la poesia rappresenta i timori più oscuri dell’esistenza.