«No Name Design è il titolo della mostra curata da Franco Clivio e Hans Hansen alla Triennale di Milano fino al 14 settembre. Essere visionari nell’ordinario e dare alla novità la forma di un’esperienza familiare. Questo fa il grande designer secondo Harvey Molotch, sociologo newyorkese autore di una Fenomenologia del tostapane. Eppure, anche dietro l’anonimato di alcuni oggetti della nostra quotidianità, sta la genialità di qualche artigiano o designer. Anche laddove non sia stata apposta una firma o non ci sia l’aura patinata del glamorous, talvolta si nasconde un vero capolavoro di industrial design.
È con questa idea che Franco Clivio, designer e docente presso la Zürcher Hochschule der Künste di Zurigo, raccoglie da oltre vent’anni oggetti di uso quotidiano, la cui ovvietà nasconde spesso un perfetto equilibrio tra valori estetici e funzionali. Di questa collezione fanno parte anche i circa mille oggetti comuni che compongono l’esposizione milanese: una rassegna ordinata per tipologia, funzione, materiali o analogie formali, volta a svelare lo straordinario nell’ordinario. Ben fatto, esteticamente impeccabile e perfettamente funzionale sono i primi requisiti di un prodotto, ma ciò che ne determina il valore come oggetto di design è la possibilità di produrlo industrialmente in modo universale, ripetibile ed economico.

I pionieri dell’arte

Il design industriale affonda le sue radici nel clima culturale di metà Ottocento, quando in Europa e in particolare nei paesi anglosassoni, la Rivoluzione industriale pose le basi per lo sviluppo della produzione seriale di oggetti. Movimenti artistici come quello dell’Arts and Crafts nacquero allora in tutta Europa, valorizzando il ruolo delle arti applicate e dell’artigianato: il processo artistico e creativo acquistò una sua dignità anche quando applicato alla realizzazione di oggetti di uso comune e non più solo quando è finalizzato all’arte per l’arte. Nel XX secolo un contributo fondamentale lo offrì la scuola di arti applicate del Bauhaus, che contribuì a delineare ulteriormente la figura del designer e il suo ruolo etico rispetto alla società, delle cui esigenze si fece interprete e portavoce. Nel secondo dopoguerra l’industria aumentò enormemente le sue capacità produttive e la progettazione si razionalizzò per una produzione massificata e consumistica: il disegno industriale aveva ormai definitivamente conquistato il suo ruolo sociale.
Dietro ogni oggetto, anche il più comune, si nasconde dunque una lunga storia e una serie di informazioni sulla società che l’ha prodotto: è innanzitutto uno strumento attraverso il quale viene appagata un’esigenza sociale e materiale. Attraverso l’analisi delle sue funzioni possiamo avere uno spaccato della società in cui nasce, le sue abitudini e aspirazioni. Una tazzina da tè, per esempio, è lo strumento indispensabile per un rito sociale e con la sua forma specifica ne descrive le caratteristiche. In contesti diversi, gli oggetti prendono allora forme differenti e così si possono applicare i metodi dell’antropologia classica e dell’archeologia anche al design industriale e ricostruire le caratteristiche di una cultura a partire da un oggetto.
Se la genesi del design affonda le sue radici nella democratizzazione dell’oggetto industriale, oggi è sempre più viva la tendenza opposta che ne vorrebbe fare una disciplina patinata finalizzata alla creazione di «pezzi unici», costosi e complicati idoli di una finta cultura elitaria.
Secondo Franco Clivio, il successo di un progetto non sta invece nel suo essere glamour o trendy, ma nel saper fondere in una apparente «facilità» una serie interminabile di fattori ed esigenze, dalla cui unione scaturisca una precisa forma. Ad avere successo e a sopravvivere alle mode del momento sono solo quegli oggetti semplici e perfetti, ai quali non si può aggiungere o togliere nulla perché funzionino allo stesso modo. La forma, l’estetica, la quantità di materiale sono innanzi tutto finalizzati alla funzionalità e al contenimento dei costi, anche se certo anche valori puramente estetici come il colore hanno il loro peso nella realizzazione di quello che deve essere in primis un prodotto appetibile e attraente.

L’abitudine cambia il mondo

La mostra nasce da un’attenzione quasi maniacale di Clivio verso l’apparentemente banale, dietro il quale si nasconde invece una piccola perfezione. Si tratta spesso di oggetti frutto del lavoro di anonimi designer e tecnici, che egli colleziona, classifica e associa per svelarne l’arte e la poesia. Hans Hansen ha realizzato per l’esposizione trentasei metri di tavoli su cui è possibile osservare gli oggetti da ogni angolazione: un cabinet de curiosités che costituisce un omaggio e un tributo al genio di artigiani e tecnici che hanno dato una soluzione perfetta a una serie di problemi di progettazione. No Name Design si interroga, inoltre, sulla natura stessa del design e sui suoi interrogativi fondamentali, come il rapporto tra originale e copia e la questione della scelta dei materiali che, a sua volta, determina diverse tecniche produttive. La rassegna è un’inedita poesia delle piccole cose che svela ironicamente come la visionarietà consista nel comprendere che la base sia sempre e comunque l’ordinarietà: quanto più un oggetto fa leva sul familiare e sulle abitudini precedenti, tanto più ha potenzialità di cambiare il mondo.
L’autentico innovatore è qualcuno che comprende la società e le sue abitudini cognitive e, su queste, basa la sua invenzione.