Nessuna prova della popolarità di Carmen supera la costante presenza della Habanera nel repertorio ossessivamente ripetitivo degli improvvisati fisarmonicisti che popolano il centro di Roma, aggredito dalla baraonda del turismo di massa che si spande nel centro della città. Più di un turista era in sala anche al Teatro dell’Opera sabato scorso, per ritrovare quell’Habanera che Bizet dovette inserire a forza, per placare le smanie della prima interprete, Célestine Galli-Marié, che voleva un’aria di ingresso dall’effetto formidabile. La lettera del compositore era preoccupazione minore ancora nel 1875 e sicuramente non meraviglia che, nell’approdare sulle scena viennesi e poi nei teatri maggiori, se ne sia approntata una versione, poi celebre, con i recitativi musicati da Ernest Giraud. Fosse vissuto forse lo avrebbe probabilmente fatto Bizet stesso, che della sua opera non conobbe mai il successo planetario.
Tuttavia oggi riproporre la versione con i dialoghi musicati risulta davvero faticoso all’ascolto, tanto questi annacquano e velano la splendida qualità della musica originale, impastoiando la sveltezza  dell’impianto drammaturgico. Questo era il vero neo della produzione che è stata in cartellone all’Opera di Roma dal 18 al 28 giugno, con un buon successo.
Diretta da Emmanuel Villaume con un efficace disegno complessivo, nonostante qualche scarto dinamico di troppo e ripetuti scollamenti fra buca e palcoscenico, si avvaleva di una regia di Carlo Sagi nata per il Teatro di Santiago del Cile. Concezione tradizionale, realizzata con cura, ma anche utilizzando un immaginario saccheggiato da teatro, cinema, televisione e pubblicità: solo una regia efficace permette a quest’armamentario di ritrovare freschezza sulla scena.
Alcune scene erano più riuscite, nonostante la sovrabbondanza di effetti e dettagli, come la taverna di Lilas Pastias e l’atto dei contrabbandieri. Meno centrati l’atto di apertura e la sfilata della corrida, sia per il carattere eccessivamente oleografico che per qualche sommarietà nella gestione delle masse. L’intenzione dichiarata del regista era di immergere, per contrasto, il dramma di Carmen in un clima festante e luminoso, ma il risalto pittorico ricordava gli epigoni di Sorolla e di Gérôme, più che Manet e Corot . Uno spettacolo di buon livello, che forse patisce la recente presenza sulle scene italiane del magnifico allestimento di Calixto Bieito, visto a Palermo, Torino e Venezia, che ricollocava la Carmen in una prospettiva più contemporanea, ricca di fascino e contrasti. Nancy Fabiola Herrera ha l’esperienza necessaria per tratteggiare una protagonista ferina, scenicamente e vocalmente plausibile.
Andeka Gorrotxategui invece faceva più perno sulla presenza che sul canto per interpretare Don José, mentre l’Escamillo di Simon Orfila risultava simpaticamente guascone. Erika Grimaldi era una Micaela coinvolgente, come anche le due compagne di Carmen, Hannah Bradbury e Theresa Holzhauser. Successo cordiale per l’ultima recita in cartellone.