«Quando queste cose si verificano in politica, parliamo di corruzione. In medicina, sono solo una nota a pié di pagina». Così scrive Vinay Prasad a proposito dei conflitti di interesse che toccano settori sempre più ampi della medicina. Prasad è un oncologo trentaseienne dell’università di Portland, Oregon. Da anni denuncia con scientifica puntualità l’influenza delle società farmaceutiche su coloro che dovrebbero verificare l’efficacia e la sicurezza di farmaci e terapie. Anche se queste relazioni pericolose influenzano i risultati delle ricerche, non si tratta di pratiche illegali. Ai ricercatori finanziati dalle società farmaceutiche è richiesto solo di dichiararlo in calce agli articoli scientifici. Una riga e poco più, appunto.
Eppure, anche questo minimo esercizio di trasparenza molto spesso viene eluso. Lo dimostra una ricerca pubblicata dall’autorevole Journal of the American Medical Association (Jama) e firmata da ricercatori delle università dell’Oklahoma, del Texas e dell’Oregon.

SECONDO LO STUDIO, la maggior parte degli oncologi che verificano l’efficacia dei farmaci antitumorali approvati negli Usa ha ricevuto finanziamenti dalle società farmaceutiche che producono quelle stesse terapie. E, cosa più preoccupante, un terzo degli scienziati nasconde del tutto o in parte i finanziamenti ricevuti.
Che i controllati finanzino i controllori è una pratica poco tranquillizzante ma non deve stupire più di tanto, visto come funziona il mercato farmaceutico. Prima di entrare in commercio, un farmaco deve superare una serie di esami, detti «trial», per dimostrare che la nuova medicina è sicura ed efficace. Le società farmaceutiche commissionano questi studi a ricercatori di università e centri di ricerca pubblici e privati, molto spesso in cambio di finanziamenti per loro o per i laboratori in cui lavorano. Gli scienziati dovrebbero garantire che gli studi siano obiettivi e, nel migliore dei casi, li pubblicano sulle riviste scientifiche, che con la peer review operano un ulteriore filtro.

ALLA FINE DEL PROCESSO, gli esperti delle agenzie pubbliche – la Food and Drug Administration (Fda) negli Usa, e la sua omologa Agenzia Europea del Farmaco (Ema) – controllano che i dati siano sufficienti ad autorizzare la commercializzazione del farmaco. Dato che i medicinali producono lauti profitti per le società farmaceutiche, esse hanno tutto l’interesse a svolgere questo iter nel modo più rapido e con un esito positivo.

LA PROCEDURA SI PRESTA a distorsioni anche quando le regole vengono rispettate e i dati vengono raccolti e divulgati senza palesi manipolazioni. Secondo uno studio del 2010, nei trial realizzati con finanziamenti pubblici il 50% di essi ha esito positivo; se i soldi li mette l’industria privata (dichiarandoli) questa percentuale sale magicamente all’85%. Vietare alle società di finanziare i trial garantirebbe una maggiore obiettività ma, senza un’iniezione di fondi pubblici alla ricerca, impedirebbe a molti medicinali di arrivare nelle farmacie e negli ospedali, e in fin dei conti ai malati.
Dunque la Fda permette che le aziende farmaceutiche finanzino i ricercatori a patto che dichiarino i loro conflitti di interessi. Questo compromesso tra profitto e trasparenza è assai difficile da mantenere, come dimostrano gli scandali ricorrenti e la sfiducia diffusa, monetizzata a scopi elettorali dal M5S.
Il delicato equilibrio salta del tutto se i dati vengono truccati e, come dimostra la ricerca su Jama, i conflitti di interesse non vengono nemmeno dichiarati. Sul campione di 344 oncologi coinvolti nei «trial» di farmaci anti-tumorali approvati tra il 1 gennaio 2016 e il 31 agosto 2017, i ricercatori hanno confrontato i conflitti di interesse dichiarati e quelli che registrati sulla banca dati «Open Payments», un sito Internet su cui le società farmaceutiche pubblicano i finanziamenti erogati. È così emerso che il 32% dei ricercatori ha dichiarato per nulla o solo in parte i propri conflitti di interessi alla Fda. Dei 216 milioni di dollari erogati dalle case farmaceutiche (circa settecentomila euro a testa per i ricercatori), alla Fda sono stati dichiarati solo 136 milioni di dollari, il 63% del totale. Il 37% dei finanziamenti sono stati dunque nascosti dai ricercatori.

LA PRATICA RIGUARDA soprattutto gli autori degli studi più prestigiosi, che dovrebbero essere al di sopra dei sospetti, pubblicati sulle riviste più autorevoli in ambito medico: Lancet, New England Journal of Medicine, e lo stesso Journal of the Medical Association che pubblica la denuncia. Dunque, anche il filtro di qualità delle riviste scientifiche dimostra di non funzionare. Eppure, i dati sono pubblici: basterebbe cercarli su piattaforme come «Open Payments».
Negli Usa, dichiarare alla Food and Drug Administration i propri legami con le case farmaceutiche è un obbligo stabilito per legge, ma le violazioni delle regole sono numerose e sostanzialmente impunite. Ne risente la qualità delle ricerche, meno controllate e scientificamente inaffidabili. A farne (letteralmente) le spese sono i malati. Una ricerca del 2017 dello stesso Prasad dimostra che oltre la metà dei principi attivi anti-tumorali approvati dalla Fda e dall’Ema tra il 2009 e il 2013 non è risultata più efficace di quelli già in commercio, nonostante i farmaci innovativi avessero superato brillantemente i trial clinici. Però, mentre per quelli più «anziani» sono disponibili gli equivalenti «generici», le nuove medicine costano molte migliaia di dollari in più, a carico dei sistemi sanitari pubblici o delle assicurazioni private. Soldi che potrebbero essere dedicati allo sviluppo di terapie più valide.
Il problema non riguarda solo i medici (e i malati) statunitensi: nella stragrande maggioranza dei casi, i farmaci sono autorizzati in Europa sulla base degli stessi dati presentati negli Usa. Dunque, i conflitti di interesse dichiarati o nascosti dai ricercatori americani influenzano anche il mercato farmaceutico europeo.
Inoltre, gli studi sui conflitti di interesse tra società farmaceutiche e ricercatori riguardano direttamente anche l’Europa, e l’Italia in particolare. Secondo una ricerca del 2016 pubblicata dalla rivista BMJ Open, il 65% delle associazioni mediche italiane è sponsorizzato da società farmaceutiche, ma solo il 6% di esse le riporta in un bilancio annuale.

NEI PROSSIMI MESI la questione potrebbe diventare scottante anche per l’Ema, dove vengono autorizzate le medicine per il mercato europeo. L’Ema sta per trasferirsi da Londra ad Amsterdam a causa della Brexit, ed è prevedibile che molti dipendenti lascino l’agenzia per ragioni personali. Attualmente, il personale che lascia l’agenzia per due anni non può lavorare per una società privata che abbia a che fare con l’agenzia stessa. La norma serve ad impedire, ad esempio, che una società farmaceutica assuma un controllore particolarmente severo per sfruttarne le competenze dall’altra parte della barricata. Ma in un rapporto pubblicato in aprile, l’Ema ha annunciato che, per facilitare i trasferimenti nel periodo di transizione, la regola anti-conflitto di interessi potrebbe essere sospesa.

 

SCHEDA

Dal 17 luglio, gli abbonati a Netflix possono vedere in esclusiva The bleeding edge, documentario diretto da Kirby Dick disponibile anche nella versione in italiano. È un durissimo atto di accusa contro le case farmaceutiche, responsabili di aver messo in commercio dispositivi medici pur conoscendone l’inefficacia e la pericolosità. Attraverso immagini esplicite, dati e interviste ai pazienti (soprattutto donne), il doc racconta come l’industria farmaceutica influenzi le agenzie che dovrebbero vigilare, e convinca i medici a servire i suoi interessi. La Bayer, produttrice del contraccettivo femminile Essure (al centro di una delle vicende narrate), ha bollato come «manipolatorio» il film, citando documentazioni scientifiche favorevole al suo prodotto. Nonostante questo, ha annunciato il ritiro dal mercato di Essure dal mercato statunitense alla fine del 2018. A causa delle segnalazioni, il dispositivo era già stato ritirato dal mercato europeo.