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La pietà laica di Oe Kenzaburo

La pietà laica di Oe Kenzaburo

Uscito nel 1989 e tradotto ora da Garzanti, «L’eco del Paradiso» è una meditazione polifonica sul dolore e sul divino: un banchetto intellettuale in forma di romanzo

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 1 novembre 2015

Negli anni trenta W. H. Auden affidò il ruolo del romanziere, nel suo poema The Novelist, a questi versi: Giusto fra i giusti/ impuro fra gli impuri/ nella debolezza della propria persona, quanto più possibile/ accogliere deve con stoico dolore/ le ferite degli esseri umani tutti. Proprio di questa definizione si appropriò lo scrittore giapponese Oe Kenzaburo quando, nel 1994, tenne il discorso di ricezione del Nobel per la letteratura. E chiosò affermando: «This is what has become my ’habit of life’», parole parzialmente prese a prestito, anche in questo caso: la «consuetudine esistenziale» a cui si disse votato in quanto scrittore era infatti una eco delle parole di Flannery O’ Connor. La profonda dimensione etica del ruolo dello scrittore, così come il continuo dialogo intertestuale con la poesia e la prosa europee e americane, costituiscono i punti focali di tutta l’opera di Oe, che può essere letta nel suo complesso come un’articolata riflessione sull’esistenza umana, sulla letteratura stessa, e sul rapporto di imprescindibile interdipendenza che le lega. La sofferenza dei singoli che si eleva a dimensione universale attraverso gli snodi più dolorosi della storia umana, il ruolo di inderogabile responsabilità degli intellettuali quali custodi delle chiavi interpretative del passato che permettono di scrivere il presente: come motivi di un canone, questi elementi ritornano declinati in ogni singola opera dello scrittore giapponese.

Non fa eccezione Jinsei no shinseki, romanzo del 1989, recentemente pubblicato in Italia con il titolo L’eco del paradiso (traduzione di Gianluca Coci, Garzanti, pp. 252, euro  22,00). Sebbene sia l’ultimo libro di Oe disponibile per il pubblico italiano, esso appartiene alla piena maturità artistica dello scrittore, precedendo gli ultimi cicli di opere degli anni Duemila intrise del late style ispirato dalle riflessioni di Edward Saïd. L’Eco del paradiso anticipa di poco la vincita del Nobel, ma è un esempio vividissimo di quanto Oe avrebbe detto nel discorso del 1994: il romanzo si presenta, infatti, come una densa e polifonica meditazione sul tema della sofferenza umana, le cui ferite lo scrittore accoglie e al tempo stesso mostra nella loro tensione verso una ricerca di senso inevitabilmente votata allo scacco.

L’aspetto soteriologico di questa ricerca è incarnato dalla figura della protagonista Marie, studiosa della scrittrice cattolica O’ Connor, una donna bellissima e sensuale, costretta ad affrontare il dolore più atroce: sopravvivere alla tragica morte dei propri figli. Se Marie può essere vista come un doppio (e al contempo l’esatto opposto) di colei che per i cristiani è la Madre sofferente per eccellenza – la scelta dei nomi in Oe è spesso palesemente non anodina – il titolo della traduzione italiana può suggerire connotazioni trascendentali improprie. La passione che la donna vive è, in termini sartriani, una «passione inutile»; il tentativo di trovare un senso alla sofferenza attraverso la ricerca spirituale prima, e poi, all’estremo opposto, nella «via della carne», è inevitabilmente fallimentare.
Nessuna eco giunge dal cielo a sollevare Marie dalla visione ineluttabilmente ricorrente della terribile immagine legata alla morte volontaria dei suoi due figli; al contrario, è nell’impegno e nell’azione – scrive Oe – che le donne trovano non già il senso dell’esistenza, ma il modo per sopravviverle: è chiaro, sebbene non esplicitato, il riferimento al pensiero di Sartre, uno dei pilastri della sua formazione.

Il titolo originale dell’opera, Jinsei no shinseki, si riferisce in effetti proprio a questa raggiunta consapevolezza: deriva, infatti, dall’espressione parientes de la vida, usata dalle donne del villaggio messicano in cui Marie – volontaria venerata come una santa per la sua abnegazione alla causa degli ultimi – finirà i suoi giorni. «Parenti della vita» sono coloro che si ritrovano accumunati non da legami di sangue, ma di com-passione; «parenti della vita» sono in Plutarco– riporta il narratore K., perfetto alter ego di Oe – le inevitabili sofferenze dell’esistenza umana.

Se il riferimento a Sartre resta sullo sfondo a fare da contrappunto alla parabola esistenziale di Marie, quello a Plutarco non è l’unico rimando intertestuale reso esplicito nell’opera: citazioni da Dante, Sand, Dostoevskij, Coleridge, Balzac, Dickens, Blake, Yeats, Sant’Agostino, Vargas Llosa, Paz e ovviamente O’ Connor, ricorrono in maniera frequentissima in una narrazione che per certi versi ne risulta paradossalmente impoverita.

In questo che si potrebbe quasi definire un didactic novel postmoderno, i riferimenti alla letteratura euro-americana non servono solo a suggerire chiavi interpretative per gli avvenimenti che fanno progredire l’azione, ma in certi punti addirittura performativamente la provocano, a scapito della tensione narrativa e mimetica. Sebbene la vicenda di Marie costituisca una cornice ben definita in cui il racconto si sviluppa in senso retrospettivo nel collage di lettere, registrazioni, ricordi diretti raccolti dal narratore K., nell’insieme l’opera risente di una certa frammentarietà e i personaggi difettano di una piena credibilità. Soprattutto le figure secondarie, che contornano la tragica esistenza della protagonista, restano appiattite sullo sfondo, schiacciate in ruoli quasi caricaturali: nel suo doloroso percorso alla ricerca di un senso, un percorso disseminato di drammatici eventi, Marie viene in contatto con un gruppo di attori filippini freak (il cui nome in tagalog significa «Compagnia della Volontà Cosmica»), guide spirituali che sembrano più smarrite dei propri adepti (la figura del «Fratello Superiore» è trattata con palese ironia), violenti machi nippo-messicani (e in particolare Macho Mitsuo, nomen omen).

La vita di Marie sembra essere predeterminata non tanto da una volontà superiore trascendente, quanto dalle opere dalle quali provengono le citazioni del romanzo e che risultano esserne – come direbbe il critico Bayard – paradossali plagiats par anticipation: le analogie con la vicenda di Véronique, la protagonista di Le curé de village di Balzac, che per espiare le proprie colpe dedica la sua vita, fino al sacrificio estremo, al bene altrui, finiscono per determinare il destino di Marie più di quanto non contribuiscano a fornirne una chiave interpretativa. E non solo: i momenti in cui si sente più vicina «al campo magnetico della fede» e le sembra di sperimentarne i «fremiti emotivi» prescindono dalla sua frequentazione di un gruppo cattolico o dalle meditazioni del Centro Collettivo del Fratello Superiore a cui si lega più tardi. L’esegesi dei testi sacri e della propria umana finitudine passa per Marie (e ovviamente per Oe) attraverso la poesia di Yeats, Dante, Blake.

Più che una riflessione sull’esperienza reale del dolore, dunque, questo romanzo si presenta come un ricco banchetto intellettuale i cui invitati contribuiscono a una meditazione polifonica sui modi di raccontare la sofferenza umana e la ricerca del divino. Nonostante i riferimenti autobiografici espliciti – K. è un perfetto doppio di Oe, come si apprende dagli elementi della sua storia familiare e professionale, narrati in parallelo alla vicenda di Marie – il realismo non è naturalmente al centro dell’interesse dello scrittore giapponese. L’eco del paradiso ha il suo punto di forza proprio nella costruzione di personaggi tra loro speculari, che permette una spersonalizzazione, e di conseguenza una universalizzazione, del tema della sofferenza, costringendo il lettore a una meditazione intellettuale dalla quale non esce indenne.

Marie è un doppio di K. (e dunque dello stesso Oe), in quanto madre di un figlio disabile; fa esperienza della ricerca spirituale e del dolore fisico, come la scrittrice O’ Connor; inoltre, viene associata da K. alla figura di Betty Boop per la sua sensualità esplicita. Ma, soprattutto, Marie, nuda nel suo letto di morte, è allo stesso tempo un doppio della madre sofferente e del figlio deposto: la sua figura è quella di una pietà laica, che nel contraddittorio segno di vittoria ripreso dalla telecamera di chi vuole realizzare un film quasi agiografico sulla sua vita esprime non già la speranza trascendente, che appartiene all’iconografia del Risorto, ma la conquista – in questa vita e in questo corpo – di un senso nella com-passione per la la vita degli ultimi. E finisce così per costruirsi come una icona indimenticabile dell’umanesimo esistenzialista di Oe.

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