Pare subito ardita l’idea di portare sul palcoscenico Il capitale di Karl Marx, eppure succede, anzi è successo a Roma al Teatro Argentina, per tre sere; sottotitolo «quasi un vangelo apocrifo in ventiquattro scene», che occupano però complessivamente lo spazio di una sola ora e mezza. È un susseguirsi di flash e di ascolti (a parte il finto-ingenuo monologo in dialetto napoletano che apre e chiude la serata, con una bravissima interprete). In realtà si scopre presto la natura di saggio scolastico di fine anno (anzi fine triennio) degli allievi in formazione del Teatro di Roma.

MA IL PENSIERO di Marx non è il testo ideale per dei giovani che sognano di rivelarsi «interpreti». È un pensiero scientifico la cui analisi ha tempi e respiro lontani da quelli teatrali. Marco Lucchesi, che ha proposto e firma l’iniziativa, ha ottenuto soccorso da svariate istituzioni (oltre al teatro ospite e produttore, anche la Treccani, il conservatorio di Santa Cecilia, il liceo artistico di via Ripetta e vari artisti che riempiono una amplissima locandina), ma il risultato finale non aiuta né l’avvicinarsi a Marx, e neppure l’eventuale confutazione delle sue tesi.

UNA IMPONENTE scalinata, lignea e irregolare, occupa l’intero palcoscenico, ma sulle sue sfasature (siamo molto lontani da Odessa e Potemkin) pensieri e pensierini dei giovani attori suonano irreali, o artefatti. Si difendono meglio i quindici giovani cantanti di Santa Cecilia, perché il loro canto ha un senso in sé conchiuso. Anche quando si ostinano a variare Blowin in the wind, sulle note celeberrime di Bob Dylan. Che appunto nasceva negli anni prima del ’68, e per molti ragazzi prima della politica e di Marx. E non a caso spopolava in tutte quelle calde serate scolastiche dette «recital di protesta».