Lucky è un tipo strano, solitario, scontroso, polemico, lascia scorrere le giornate dei suoi novant’anni seguendo rituali molto precisi: le «maledizioni» alla società che lo aveva licenziato, la sosta nell’unico locale di quella piccola città sperduta in qualche parte dell’America, popolata da figure tutte a loro modo un po’ stravaganti, la tv accesa ore e ore, l’enigmistica, qualche bestemmia, Lucky è ateo, la sua spiritualità, profonda e stratificata, è piuttosto un sguardo sul mondo.

Lucky, il nome del protagonista è anche il titolo del film esordio alla regia dell’attore John Carroll Lynch – era lo scorso anno in concorso a Locarno, in sala da lunedì 29 agosto – nessuna parentela con David (Lynch) che è però nel cast (e molto presente come riferimento cinematografico), una sorta di compilazione dell’immaginario americano (cinema, pittura, l’immancabile bancone di Hopper, musica), prevedibile e quanto basta per appoggiarsi interamente ai suoi attori, a cominciare dal protagonista, Harry Dean Stanton.

È lui che dà vita a Lucky in cui esibisce fino alla commozione volto scavato, gambe magrissime, l’andatura incerta degli anni passati – il regista ha definito il film «una lettera d’amore a Stanton» – sessantottino coi suoi due pacchetti fumati ogni giorno e l’allergia alle regole – nel ’68 si fumava protesta – pochi amici, la proprietaria del bar dove passa insieme agli altri compagni di una vita, quelli rimasti sulla terra, interminabili serate. Si parla di realismo e di verità che è sempre diversa, secondo chi la racconta, di incontri che cambiano la vita, delle scelte di una tartaruga centenaria che si chiama President Roosevelt ed è scomparsa spezzando il cuore dell’amico umano (Lynch David) il quale si rassegnerà pensando che la tartaruga aveva pianificato la fuga da tempo nel deserto tra cactus altrettanto antichi.

È un film sulla vecchiaia Lucky, sugli anni che vanno via, sulla morte e sulle relazioni ma è anche un film sul paesaggio americano lungo il confine con la parte ispanica. E forse su una vita nascosta, sui desideri frustrati del suo protagonista che ha fatto la guerra in marina, ha scoperto troppo tardi la musica di Liberaci mentre ancora oggi guarda con ostentato fastidio i ragazzi (maschi) baciarsi tra loro e chissà se anche lui avrebbe voluto…
Lynch, il regista, ci mette molto dei Coen con cui ha lavorato da attore in Fargo e in altri film, un po’ di rosso mistero alla Twin Peaks (il primo) nei sogni, mariachi di non so più chi: tutto è perfetto, orchestrato per piacere, battute e lacrimuccia. Così al punto giusto da risultare indigesto.

Se non fosse appunto per lui, Stanton, e non solo perché sappiamo che questo è stato l’ultimo film dell’attore di Paris, Texas (tra gli altri di una lunghissima carriera), scomparso lo scorso settembre. É che la sua è una presenza viva, di quelle che scompigliano con ogni gesto script e intenzioni di regia, ammiccamenti e convenzioni. Un passo, un’occhiata, un silenzio: basta poco a dire un mondo che è quello dell’immaginario. Con il dolore di chi ostenta molta sicurezza, e seppellisce da qualche parte la paura di un corpo fragile appena scoperta, e il suo cappello (da cui non si separa mai) da cow-boy Lucky/Stanton attraversa quelle strade, quegli orizzonti uguali ad altri rendendoli unici.

Quanto c’è di sé in questo personaggio? O almeno quando dei molti passaggi della sua carriera, quando lo vediamo suonare alla chitarra – come in Twin Peaks 2, quando in un trailer park accenna Red River Valley : «From this valley they say you are leaving / We will miss your bright eyes and sweet smile.». Senza imbarazzi di fronte agli inciampi, nonostante gli sforzi per tenersi in forma, gli incontri casuali con la giovinezza, quel vagabondare che somiglia ai versi di una ballata Stanton/Lucky diventa il film. E ci fa dimenticare il resto, ci porta con sé tra paure e desideri, negli ideali di una vita che sono anche una festa di compleanno.