«È la Cambogia, quindi può succedere di tutto», ha affermato un esponente del governo cambogiano a pochi giorni dalla consultazione elettorale di oggi. Per la Cambogia si tratta delle quinte elezioni, dalle prime storiche del 1993. Da allora a vincere è sempre il Partito Popolare di Hun Sen, in sella al paese dal 1980, in nome di un regno costituzionale che è oggi il più longevo in tutta l’Asia e che sembra prepararsi a una successione dinastica, viste le posizioni di rilievo dei tre figli del primo ministro. Hun Sen è l’uomo forte del paese: ex khmer rosso, le cui responsabilità durante i primi anni del dominio degli uomini di Pol Pot non sono mai state provate, decise infine di passare tra le fila dei cambogiani filovietnamiti. Da allora è stato capace di governare per tre decadi e trasformare il paese in una sorta di piccola Cina: investimenti di capitale straniero che stanno trasformando la Cambogia, garantendo crescita ma con gravi costi umani e ambientali. Tutto sorretto da una struttura politica capillare, in grado di imporsi anche con le maniere dure, specie nelle zone rurali dove vive l’80% della popolazione (la cui maggioranza appoggia il primo ministro e la sua politica).
Secondo molte organizzazioni umanitarie internazionali il suo governo si sarebbe macchiato di gravi violazioni dei diritti umani, ma Hun Sen è sempre stato capace di ottenere investimenti esteri. Però a questa tornata elettorale, considerata tra le meno «pulite» della recente storia cambogiana, Hun Sen sembra meno certo del successo. Prima dell’inizio della campagna ha contestato l’opposizione accusando uno dei suoi leader di pedofilia e di negare i crimini dei khmer rossi (con una sorta di legge contro il negazionismo), poi a seguito della minaccia esplicita americana di tagliare i fondi e gli investimenti in Cambogia ha consentito al leader degli esiliati, Sam Rainsy, di tornare dopo tre anni di vita in Francia e guidare, anche se non si potrà candidare, l’opposizione, che di fatto si ritrova senza un leader riconosciuto.
Il clima è teso. Secondo gli osservatori internazionali c’è un rischio molto alto di brogli: sono stati infatti iscritti alle liste dei votanti migliaia di persone in più rispetto agli aventi diritto e da parte del Comitato per libere e giuste elezioni della Cambogia è arrivato un monito piuttosto grave circa la regolarità delle consultazioni. Del resto il Partito Popolare ha fatto chiaramente intuire che, in caso di sconfitta, il risultato potrebbe non essere accettato. Anche il Partito per la Salvezza Nazionale, tramite fonti vicine alla dirigenza, ha fatto sapere che in caso di brogli conclamati non riconoscerà l’eventuale vittoria dei popolari.
Hun Sen ha vietato le trasmissioni radiofoniche in lingua straniera e teme più di tutto la rete: se infatti la sua vittoria è scontata, la vera partita si gioca su quanto l’opposizione guadagnerà in termini di seggi rispetto al passato (nelle ultime elezioni furono 33 su 123 a disposizione). Il partito per la Salvezza Nazionale ha una base urbana, composta da giovani cambogiani poco sensibili alla propaganda popolare – intrisa dei ricordi delle guerre passate e che minacciano nuove guerre in caso di sconfitta. Si tratta di un milione e mezzo di nuovi votanti, giovani, con account sui social network usati per fare girare informazioni censurate dai media nazionali, «una forza politica che desidera prodotti stranieri, l’Iphone, televisori a schermo piatto e abbastanza soldi per indulgere nella vivace scena locale notturna della capitale», come ha scritto su The Diplomat Luke Hunt.
Sulle elezioni pesano i principali problemi della Cambogia: quelli relativi all’espropriazione delle terre, che avvengono secondo logiche “cinesi”, e la presenza di investimenti stranieri desiderosi di sfruttare ambiente e manodopera a basso costo. In questo caso ce n’è davvero per tutti: Europa, Usa, Cina, Giappone, Corea del Sud e naturalmente grandi brand internazionali. Una delle controversie più classiche legate alla terra è quella che vede l’espropriazione fatta in nome delle piantagioni di zucchero: si tratta di una coltura redditizia, specie da quando l’Ue consente allo zucchero cambogiano di arrivare sui mercati continentali. Ma, come segnalano le associazioni per i diritti umani, la coltivazione di zucchero è anche collegata a sfratti violenti, brutalità dei militari contro civili, lavoro minorile. Poi ci sono le violenze contro i lavoratori: nel 2012 Chhouk Bandith, governatore del distretto Bavet, ha aperto il fuoco contro operai del settore tessile, impegnati per conto di Puma, che erano scesi in sciopero. Dopo un anno di battaglia legale è stato condannato a 18 mesi, ma non è stato arrestato perché secondo le autorità «non si trova». Puma ha commentato dicendosi «soddisfatta» della pena e specificando che gli spari sarebbero partiti «incidentalmente».
La Cambogia inoltre si trova al centro dello scontro Cina-Usa: una battaglia geopolitica scatenata dal tentativo di Obama di aumentare l’influenza americana su un continente ormai fondamentale negli equilibri mondiali. Gli States devono scontrarsi però con una lunga storia di rapporti tra Cina e Cambogia: dal sostegno ai khmer rossi all’abbandono di Pol Pot quando si trattò di mediare per arrivare alle prime elezioni. La Cina in Cambogia agisce come in altri luoghi del mondo: investimenti e infrastrutture in cambio di delocalizzazione della produzione tessile, risorse e appoggio internazionale. Pechino ha investito 9,17 miliardi di dollari tra il 1994 e il 2012 nel Paese, e nel 2012 i prestiti e le sovvenzioni cinesi hanno raggiunto i 2,7 miliardi di dollari. In cambio la Cambogia ha consegnato alla Cina venti uiguri nel 2009 e ha di fatto appoggiato Pechino nelle contese asiatiche sul Mar cinese meridionale. Un’alleanza che l’opposizione a Hun Sen contesta, ma di cui Hun Sen si fa forte: la crescita cambogiana dipende anche da Pechino.