Nelle sue Dantes Spuren in Italien (Orme di Dante in Italia, trad. it. 1902) Alfred Bassermann – studioso con cui i biografi di Dante, anche recenti, hanno contratto debiti molto più ampi di quanto non si pensi – ripercorreva, Commedia alla mano, i vagabondaggi del poeta su e giù per la penisola credendo di identificare a ogni verso luoghi e volti che Dante aveva ritratto nel suo capolavoro. Non era, come potrebbe parere, una descrizione a tavolino. Figlio di facoltosi banchieri tedeschi, il solerte Bassermann prese zaino e scarponi e, affidando la mappa del proprio originale Grand Tour agli itinerari disegnati dalle terzine della Commedia, fornì di quei luoghi descrizioni tanto puntuali da rivelarsi utili ancora oggi. Ebbene, commentando il canto XXXII dell’Inferno in cui Dante mette «in gelatina» i traditori dei consanguinei, lo studioso indugiava sulla furia fratricida della famiglia degli Alberti, tenutaria di castelli lungo quella valle del Bisenzio che tramite il passo di Montepiano collega Prato a Bologna (oggi si usa la non molto più scorrevole autostrada del Mugello): ai preziosi dettagli storico-topografici, frutto della diretta esplorazione dei luoghi, Bassermann allegava la notizia che questa antica casata aveva «innato il tradimento sempre uccidendo l’uno l’altro», ricavando la chiosa dal cosiddetto Ottimo commento al poema.
L’Ottimo, epiteto coniato dall’Accademia della Crusca che iniziò prestissimo a consultarlo manoscritto, si leggeva a quel tempo nella generosa ma inaffidabile edizione procurata dal poligrafo veronese Alessandro Torri tra 1827 e 1829. È commento prezioso per due motivi: il primo, perché l’autore, che mai si dichiara, dichiara però in un paio di luoghi di avere conosciuto personalmente Dante; il secondo, perché questo è uno dei più antichi commenti alla Commedia di cui disponiamo, vergato certamente nel quarto decennio del Trecento. Va dunque dato pieno merito alla ‘picciola’ pattuglia di giovani e agguerriti filologi che, dopo un lavoro pluriennale, ce lo ha finalmente restituito in un prezioso e affidabile testo critico (Ottimo commento alla ‘Commedia’ Chiose sopra la ‘Comedia’, voll. I-IV, a cura di Massimiliano Corrado, Giovanni Battista Boccardo, Vittorio Celotto, Ciro Perna, Salerno Editrice, pp. 2.800, € 290,00). Il volume fa parte dell’Edizione Nazionale dei Commenti Danteschi, iniziativa avviata e condotta con piglio deciso da Enrico Malato, cui va dato atto di mantenere le promesse formalizzate nel programma editoriale. I primi tre volumi sono impegnati dal vero e proprio commento dell’Ottimo; il quarto vi accompagna la cosiddetta versione dell’Amico dell’Ottimo: l’etichetta si spiega con le molti parti in comune che transitarono dall’uno all’altro, non senza aggiunte, espunzioni e precisazioni che dimostrano, senza troppi patemi filologici, trattarsi di chiose uscite da due mani diverse.
Gli editori riordinano con puntualità la tradizione manoscritta che si lascia addomesticare con relativo agio grazie alla presenza di lacune e sviste utili a tracciare uno stemma affidabile. Il quesito più spinoso riguarda semmai il primissimo stadio della trasmissione dell’Ottimo: in passato alcuni filologi di vaglia come Giuseppe Vandelli avevano ravvisato la presenza di due redazioni d’autore su cui, con ogni probabilità, andarono a condensarsi chiose successive di mani diverse. Ora, pur riconoscendo la presenza di interventi successivi, sembra prevalere l’idea di una tradizione unica emanata da una primitiva e originaria versione del commento. Lo certificherebbero alcuni errori comuni a tutti i manoscritti della tradizione, circostanza difficile da spiegare in presenza di una revisione d’autore.
Per dare un’idea della qualità delle informazioni trasmesse da questo commento è utile citare la chiosa a Inferno X 85-87 a proposito delle parole in rima, in cui l’Ottimo dichiara: «Io scriptore udii dire a Dante che mai rima nol trasse a dire altro che quello ch’avea in suo proponimento; ma che elli spesse volte facea li vocaboli dire nelle suoi rime altro che quello che erano apo li altri dicitori usati di sprimere». L’Ottimo non è un personaggio isolato: appartenne a quella cerchia dei primissimi cultori del poeta che assieme ai notai Andrea Lancia, Alberto dalla Piagentina e ad altri promossero lo studio e la trascrizione delle sue opere nella Firenze del quarto e quinto decennio del Trecento. E attinsero a opere rarissime, come il Convivio, citato esplicitamente dall’Amico, e l’epistola a Cangrande, che nel proprio commento alla Commedia Andrea Lancia menzionò nella sua interezza come opera dantesca (il che dovrebbe consentire di archiviare serenamente ogni discussione sull’autenticità). Difficile dire se l’Ottimo abbia lavorato sempre a Firenze. Alcuni indizi lo collocano in Italia settentrionale, come la chiosa a Inferno XXVIII sugli eretici seguaci di fra Dolcino: «io scriptore ne vidi de’ suoi ardere a Padova in numero di xxii a una fiata: gente di vile conditione, idioti, villani». Visto che Dante non tornò più a Firenze dopo la condanna del 1302, l’Ottimo – che fa riferimento alla Commedia – deve averlo incontrato altrove, forse proprio in Italia settentrionale dove il poeta si fermò a lungo.
In lodevole competizione filologica con l’edizione dei commenti si colloca il volume di Prue Shaw dedicato alla tradizione testuale della Monarchia e promosso dalla Società Dantesca Italiana. Raccogliendo il frutto di un lavoro quarantennale, il volume di Shaw ripercorre con lucidità tutte le tappe della constitutio textus della Monarchia (criticamente edita dalla stessa studiosa nel 2009), ma si sofferma in particolare sul testimone Additional 6891 della British Library di Londra, manoscritto rintracciato solo nel 2011, la cui vetustà e correttezza avevano indotto qualche studioso a mettere in dubbio la ricostruzione stemmatica di Shaw. A una rigorosa verifica filologica la consistenza testuale dell’Additional permette a Shaw di adagiarlo senza difficoltà all’interno di uno dei rami ben codificati dello stemma codicum: nepos – e non primusinter pares. Ne esce confermata la datazione alta del trattato, da ricondurre a un momento successivo al 1316-’17 in virtù di un accenno che, parlando del libero arbitrio, Dante riserva, nel trattato, al canto V del Paradiso («sicut in Paradiso comedie iam dixi» ‘come ho già detto nel Paradiso della mia Commedia’), canto unanimemente collocato dagli studiosi a quella altezza cronologica. Il testimone londinese infatti esibisce il passo leggermente sfigurato («sicut inminuadiso immediate iam dixi»), ma che pure il codice da cui fu copiato recasse la lezione corretta «Paradiso», così come la leggiamo noi oggi, si evince, fra l’altro, dal fatto che l’unica parola della latinità terminante in –adiso è, per l’appunto, Paradiso.
Resta solo da aggiungere che in un terreno così vasto e dai confini così permeabili come quello degli studi danteschi queste sono opere di cui c’è, soprattutto oggi, estremo bisogno. Dante è autore molto tollerante: su Dante tutti hanno pieno diritto di scrivere, di avanzare le proprie interpretazioni, di proporre letture più o meno congruenti, rivoluzionarie, stravaganti senza che l’anima del poeta se ne abbia a male. Non è ammesso alcun tipo di barriera o categorizzazione. Se anche le si invocasse, verrebbero ineluttabilmente travolte, e forse è bene così. Tuttavia sullo sfondo di questo panorama – se mi si permette la metafora alpinistica – bisogna essere grati a coloro che decidono di affrontare il sesto grado filologico. Non sono imprese per tutti, richiedono tempo, tenacia, preparazione tecnica, con le opportune assicurazioni: se non presta attenzione, specie su pareti molto esposte, il gitante domenicale va a rischio di pericolose cadute. A ciascuno, dunque, il proprio mestiere.