Tanta gente, da queste parti, non s’era mai vista per una manifestazione contro le mafie. Perché a Foggia, nella terra del silenzio, delle rapine eclatanti, delle serrande sventrate, degli assalti ai portavalori, nel capoluogo della provincia delle tre mafie, delle 17 uccisioni e 2 lupare bianche nel 2017, un no schiaffeggiato tanto forte fa rumore il doppio.

E PER UNA VOLTA LA SOSTANZA è forma, non il contrario. Fino all’ultimo, il timore che prevalessero il maltempo o, peggio, la paura, si sostanziava in un grosso punto di domanda. Ma poi, nella pancia del corteo, meno di un’ora dopo la partenza, malgrado la pioggia, malgrado il vento che taglia la faccia e intrizzisce le orecchie, si mormorano cifre con una prudenza che sfiora la reverenza. Non è una questione di zeri, è il fatto che Foggia c’è.

NEMMENO TRA I FAMILIARI delle vittime innocenti delle mafie lì, avanti a tutti, ci si crede. «Davvero siamo in ventimila?» sorride Daniela Marcone, responsabile memoria e vicepresidente di Libera, figlia di Francesco, direttore dell’Ufficio del Registro della città dauna ucciso a pistolettate nel 1995 nel portone di casa. E invece, dietro gli striscioni e tra i viali di Foggia, per la manifestazione nazionale della ventitreesima Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, sono in quarantamila.

QUARANTAMILA PERSONE giunte da ogni parte di Puglia e d’Italia, compresi quelli emigrati che, una vita al Nord, hanno scelto di non mancare in un’occasione talmente significativa da aver richiesto lo slittamento della festa patronale. In corteo ci sono i sindaci, gli amministratori di Avviso Pubblico, maestri e professori così tanti che nemmeno si contano; ci sono Maurizio Martina, Rosy Bindi, Michele Emiliano e Pietro Grasso.

Ci sono gli operatori delle cooperative sociali che gestiscono i beni confiscati, gli scout con il bandierone della pace e gli studenti universitari. C’è Peppino D’Urso, ex consigliere comunale, che, la notte prima della marcia, ha pagato il suo impegno di recupero di un parco urbano con l’incendio della propria automobile. Ci sono gli striscioni dei sindacati, gli immigrati con l’Arci, le pettorine gialle di Legambiente e quelle della Coop.

CI SONO GLI OCCHI DEI PARENTI dei morti ammazzati, che si stringono sul palco a fine corteo, giusto un attimo prima che l’aria si riempia di un silenzio imponente rotto appena dalle voci che cadenzano i quasi mille nomi delle vittime.

C’è una città che osserva, commenta e pare reagire, certe volte con calma, certe altre con sdegno, a quel tappeto umano di colori e slogan. Il vecchio che biascica a mezza voce un commento rabbioso contro la chiusura del centro, l’autista dell’autobus che, fuori servizio, proclama che «queste manifestazioni non servono a niente: la mafia è un’invenzione», la signora con le spalle incassate che, ombrello piegato dal vento, ride e dice «bravi» ai ragazzi con la chitarra assiepati a piazza Italia.

Ma è nella limitrofa piazza Cavour che si concentra la maggior parte dei manifestanti. Laddove un palco con un enorme telo giallo come sfondo su cui campeggia la scritta Terra, come il titolo di questa giornata, come quelle zolle amare di caporalato, accoglie la chiusura di Luigi Ciotti.

STREMATO da una lunghissima preparazione, incontri che si sono susseguiti a Foggia per settimane, il fondatore della rete antimafia sorride.

Al suo fianco, tre vescovi. Segno «di una Chiesa che si sporca le mani» e che non scende a compromessi con le dinamiche criminali. Don Ciotti, a queste dinamiche, affibbia anche un attributo: infestanti.

«SONO UNA MALATTIA che infesta le nostre società e calpesta i diritti», ripete. Applausi e sorrisi intristiti. Una malattia contro cui “professare la legalità come un santino” non serve. Una malattia contro cui invece, spiega don Ciotti, occorrono anticorpi e medicine.

Gli anticorpi sono «i diritti». Il lavoro, soprattutto. Le medicine invece, «siamo noi». Le persone, i ragazzi, i cittadini. Già perché poi «non sono le mafie il problema, ma siamo noi. La loro forza sta nella nostra debolezza». E nella resa della maggioranza dei giusti, aggiunge.

Quella che, quando arriva, ingigantisce il senso di scoramento: «Il 70% delle vittime di mafia non ha avuto giustizia. I loro familiari non conoscono la verità e vivono dentro città in cui camminano, impuniti, i colpevoli». Di certo, non ieri.