Tra le tante modalità di rappresentare il conflitto che silenzioso, ma potente, attraversa il nostro mondo e deciderà le sorti della democrazia, una delle meno frequentate è l’opposizione tra la persuasione e la conversazione. Questa opposizione si è intensificata con l’evidente degenerazione progressiva della persuasione in influenzamento. La persuasione presume sempre un dislivello tra chi persuade e chi è persuaso, estende nel campo dialogico il diritto del più forte (al di là delle buone ragioni che possono renderla utile e costruttiva).

È una trasposizione dello spirito guerresco maschile nelle relazioni civili (pubbliche e private). Avente come suo scopo l’affermazione di una ragione su un’altra (che fa della ragione sconfitta una non-ragione), è unidirezionale. Crea apprendimento solo sul piano tattico: il suo obiettivo strategico coincide con se stessa. A causa di questa sua natura può servire egualmente il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. Essendo diventata uno strumento indispensabile della prevaricazione senza uso della forza bruta, piega sempre di più la retorica (l’arte di rappresentare il proprio punto di vista in modo da nascondere i suoi punti deboli e evidenziare i suoi punti di forza) alla manipolazione del pensiero. Il “basta che si pensi che funzioni” è diventato il suo principio d’azione.

L’influenzamento agisce sul piano psicologico. Non manipola direttamente il pensiero, ma agisce sulle emozioni mediante input (studiati oggi algoritmicamente e facenti parte di piattaforme) che da una parte interferiscono con la loro elaborazione, creando un ingorgo, e dall’altra ne favoriscono la scarica impulsiva. Gli output sono pensieri/azioni che producono un modo di concepire la realtà ridotto a schemi impersonali, omologanti. A un estremo catastrofico questi schemi possono ridurre gli esseri umani in macchine biologiche, comportamentali. L’influenzamento a un certo punto non difende più una concezione del mondo, ma diventa riproduzione di se stesso, assoggettando l’influenzato e l’“influencer” allo stesso modo.

La conversazione presume la parità dei soggetti in essa impegnati. È di ispirazione femminile, senza arché, un principio predeterminato e predeterminante, e senza un obiettivo da raggiungere, un ordine da confermare. In essa mezzo e fine coincidono. I conversanti mai procedono in modo convergente e lineare. Il loro sguardo è costantemente dislocato e il cambiamento delle prospettive non causa alcun smarrimento, ma, al contrario, intensifica il senso di continuità, di condivisione. Le differenze non si oppongono, in competizione, tra di loro. Si intendono, entrano in un gioco che esplora le potenzialità di uno sviluppo sperimentale, innovativo dei desideri, delle sensazioni, dei sentimenti, dei pensieri. La conversazione trasforma i conversanti, li apre a una conoscenza nuova iscritta nel loro modo di sentire eroticamente, affettivamente, mentalmente la realtà, più che nelle loro concezioni.

La relazione nella cura psicoanalitica è fondata sulla conversazione ed è molto danneggiata dalla persuasione. Il sapere dell’analista sulla vita psichica è sterile al di fuori di uno scambio paritario, libero e imprevedibile nel suo divenire, con chi intraprende un’analisi. Più in generale, la cura di sé e dell’altro (l’amante, l’amico, il collega di lavoro) esclude la persuasione.

Lo stesso vale per la trasmissione del sapere (tra genitori e figli, tra maestri e allievi). Socrate fu caustico con l’idea che questa trasmissione fosse un travaso di conoscenza da chi ne è più pieno a chi ne è più vuoto. Scelse il dialogo con i suoi discepoli, perché gli permetteva di procedere a zig zag, “zoppicando”, per svolte più che per rettilinei: la linea dritta non si addice alla saggezza. Sapeva che la persuasione/dimostrazione è sul piano creativo del sapere inferiore al dialogo/conversazione.