Anarchici e orgogliosi di esserlo (elèuthera, pp. 328, euro 15) di Amedeo Bertolo è una raccolta di saggi, pubblicata a un anno dalla sua scomparsa, che restituisce vividamente l’attività intellettuale e militante di uno dei più lucidi esponenti dell’anarchismo italiano.

MAI COME IN QUESTO CASO, però, sembra valere l’icastica affermazione di Foucault secondo cui «l’autore non esiste». Bertolo, infatti, è stato una sorta di sensibilissimo sismografo di movimento in grado di registrare con anticipo e lucidità quanto, più o meno visibilmente, è andato accadendo a livello politico negli ultimi 50 anni. O, meglio ancora, vista la sua formazione, un agricoltore capace di trasmettere un sapere elaborato collettivamente grazie alla sua abilità, unita a pazienza, arguzia e tenacia, di analizzare i terreni, riconoscere i semi fecondi e tentare innesti originali. Bertolo pensa e agisce in un momento di crisi politica, su un crinale dal quale – una volta infrantasi, per sclerotizzazione burocratica e repressione istituzionale, la spinta trasformativa del periodo che va dalla Liberazione al ’68 – è possibile scorgere il paesaggio sempre più arido prodotto dall’incedere perentorio del capitalismo neoliberista.

Crisi che non ha risparmiato la riflessione e la prassi anarchiche. Al proposito la diagnosi di Bertolo è sì implacabile («il movimento anarchico è in crisi gravissima»), ma solo per dare spazio a una proposta politica «antidepressiva», a una «permanente eresia creativa», alla costruzione di un «anarchismo vivente»: «l’anarchismo deve mutarsi, restando però una mutazione irriducibile alle culture dominanti», perché «proprio quando la situazione è sfavorevole alla rivoluzione, il lavoro rivoluzionario è maggiormente necessario». In sintesi, per Bertolo l’anarchismo deve mantenere ferma la sua «critica radicale del dominio» (che definisce come il potere coercitivo di «poter far fare»), la sua capacità di pensare insieme libertà e uguaglianza, riconoscendo però che «il popolo degli oppressi» – come quello dei «nuovi padroni» – è molto più «vasto e variegato» di quanto si sia soliti pensare.

DA QUI LA NECESSITÀ di allargare la prospettiva ad altri movimenti di liberazione, di «dilatare» la dimensione utopica, nella convinzione che «la grande trasformazione deve cominciare adesso» «dentro questa società», pur situandosi «contro e (in qualche misura) fuori» e restando «comunque sempre altro».

Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere Amedeo e di sviluppare con lui un dialogo reciprocamente critico circa la valenza politica e sociale della questione animale.

Certo, come questo libro dimostra, Amedeo Bertolo è rimasto legato al continente dell’uomo, ma il sorriso sornione e amichevole con cui ha sempre accolto le mie riflessioni mi è apparso, fin da subito, come il segno inequivocabile che fosse pronto, «magari ritornando indietro per fare un giro più lungo ma più praticabile», a salpare per ulteriori «lunghi viaggi di pensiero e di azione».