Con l’inaugurazione di Expo si chiude solo la prima fase dello sviluppo di quella vasta area nella prima cintura periferica di Milano al centro di una tra le più tormentate vicende della storia della città. I suoi circa centodieci ettari di superficie, trascorso il tempo della kermesse, smontati i padiglioni e smantellati i cluster espositivi, saranno liberi lasciando il posto a ciò che ancora nessuno ha individuato con chiarezza. Prima ancora che le indagini della magistratura siano concluse sui numerosi casi di corruzione che hanno visto coinvolte imprese costruttrici e pubblici amministratori, i soli edifici che resteranno sopra la piastra saranno il Padiglione Italia (Nemesi & P.) e la Cascina Triulza: simbolo il primo, con la sua trama fitomorfa in cemento e vetro che lo riveste, dell’architettura spettacolarizzata e il secondo, testimonianza della perdita della campagna divorata dallo sprawl.

Tutto intorno si mostrerà alla fine dell’anno la miseria della tabula rasa e dei viali e vialetti ordinati nella banale maglia del cardo e del decumano, come se la modernità non ci avesse lasciato in eredità nulla di alternativo per disegnare un suolo. Il vero problema nell’immediato futuro sarà cosa fare di questo spazio che più che un «rammendo» prefigura già una nuova lottizzazione. Come riconvertire un’area di queste dimensioni pur dotata di infrastrutture, ma bisognosa di una radicale bonifica ambientale che i piani di indagine hanno bene evidenziato? Qual è il destino che l’attende rispetto alle altre aree urbane che da anni sono abbandonate o da completare?

I primi segnali del mercato non sono stati incoraggianti, dopo un primo tentativo fallito di vendita dei terreni. Le banche creditrici bussano all’incasso dei loro quattrini prestati al Comune e alla Regione per acquistarli mentre il Tesoro – con la sua partecipata Cassa depositi e prestiti – finanza l’amministrazione comunale per aumentare le sue quote in Arexpo, la società proprietaria dell’area. La crisi finanziaria mondiale, nel frattempo, ha non solo deprezzato il valore delle aree ma reso complicato il loro sviluppo sulla base di progetti incerti e piani finanziari poco credibili per investitori istituzionali e privati.

È amaro, purtroppo, costatare che «non esiste – come scrisse Aldo Bonomi, in un agile libretto (Milano nell’Expo, 2009) – una neoborghesia milanese che abbia la visione di come debba essere questa città» e, a quanto pare, neppure di una sua sola porzione. Senza chiari indirizzi, è difficile individuare soluzioni che non facciano rimpiangere l’inutile consumo di suolo e denaro che ha comportato l’esecuzione di Expo.

Certo è che non si possono garantire gli interessi comuni senza cambiare verso: si tratta di «voltare pagina», come scrisse il nostro Giorgio Salvetti (il manifesto, 23/8/2014). In assenza di una strategia condivisa dai cittadini è facile cadere negli errori del passato, ovvero averli contro mentre le banche s’industriano ad essere gli sviluppatori di un pezzo di città, disposte a tutto pur di rientrare dei loro crediti, con la classe politica consenziente pur di non incorrere nelle osservazioni della Corte dei Conti e dei tribunali. Così, da qualche mese, si assiste a ogni genere d’iniziative rivolte a individuare il futuro dell’area.

È un vero impegno o anche queste si consumano nella mediazione degli interessi affaristici di pochi e nello spazio dell’evento mediatico? Un’occasione per un serio confronto poteva essere l’Expo delle idee che il 7 febbraio si è tenuto all’Hangar Bicocca. Nei 42 «tavoli di lavoro» allestiti per stendere la Carta di Milano, tra i coordinatori non sedeva una personalità autorevole sul piano internazionale in grado di abbozzare un concreto programma di sviluppo sostenibile dal lato dell’urbanistica per il capoluogo lombardo che si accinge a diventare domani (già oggi sul piano amministrativo) una metropoli. Di là dei buoni propositi e della pluralità dei temi affrontati – tutti ruotanti intorno a quello cardine di Expo – non sono state mostrate soluzioni intelligenti per il quadrante nord-ovest della città.

Nessun suggerimento è giunto dalla precedente esposizione universale di Shangai (Better City Better Life, 2010) che si proponeva di discutere proprio le questioni poste dalla complessa realtà delle metropoli; a riprova, forse, del fatto che non hanno alcun riflesso sulla conoscenza i temi di un’esposizione universale, almeno di quelle contemporanee: altri gli interessi in gioco e le ragioni che le riproducono. Tuttavia, è dalle nuove forme dell’urbanesimo che si deve partire per comporre la cornice necessaria per inquadrare qualsiasi questione inerente la qualità della vita, compreso quella dell’alimentazione e del cibo che interessa Expo.

Si potrà obiettare che la scala dimensionale di Milano (considerato anche il suo hinterland) non è investita allo stesso modo dai problemi posti in altre parti geografiche del mondo: in Asia e in Africa ci si confronta con altri conflitti e contraddizioni. Non dobbiamo però ripetere quanto diffusi e connessi sono, anche nelle aree più periferiche del pianeta, gli effetti dell’economia globale. Appare evidente che ciò che si profila per il post Expo riguarda molto da vicino ciò che succede in altri contesti e invece di guardare a nuovi modelli di intervento, ai differenti soggetti e procedure per renderli esecutivi si preferisce riprendere schemi e tecniche che sono ormai superati dalle attuali condizioni di mercato, tutte all’interno delle logiche neoliberiste che ancora godono buona salute.
Ritorniamo però alla cronaca dei giorni passati. Abbiamo detto che le iniziative intraprese dal Comune e da Arexpo tendono a evitare ciò che già molti prefigurano: una nuova lottizzazione governata dagli interessi delle banche creditrici rivedendo le condizioni urbanistiche. Un destino che sembrerebbe già segnato e che si teme possa modificare la proposta di variante al vigente Piano del Governo del Territorio già prevista nell’Accordo di Programma della Giunta Moratti (2008) ratificato dalla Giunta Pisapia (2011). La variante assegnava, come si legge nella Relazione Illustrativa (www.comune.milano.it), un «mix funzionale tipicamente urbano» dove «predominante è la realizzazione degli spazi e delle attrezzature pubbliche», con aree libere a verde maggiori del 50%.

Oltre a questa generica esposizione, però, non si è andati e sulle destinazioni dell’area si sono susseguite una girandola di proposte: dall’insediamento della cittadella dello sport con il nuovo stadio di calcio multifunzionale al trasferimento dell’università, fino alle ingenue idee del terzo cimitero o della «Cittadella delle eccellenze italiane», come abbiamo visto nel Padiglione Italia all’ultima Mostra internazionale di architettura a Venezia, addirittura un centro direzionale metropolitano-regionale come non fossero bastate le cubature dell’area Garibaldi-Repubblica-Porta Nuova e del Portello-Fiera.

La vera contraddizione è che, da un lato, ci si prefigge un mix funzionale per garantire il «carattere fondamentale di mescolanza sociale» (Gregotti) che deve sottendere la riqualificazione di ogni periferia; dall’altro, si ricerca una funzione catalizzatrice della trasformazione urbana da attuare sempre nelle forme di un partenariato pubblico-privato raffazzonato come sono d’esempio molteplici casi non solo a Milano e in Lombardia. Ora nel bando pubblicato per acquisire e trasformare l’area è esplicito l’obiettivo dell’amministrazione pubblica, peccato che nel resto del mondo, anche per interventi molto inferiori ai trecentomila mq di superficie utile previsti, altre sono le azioni preliminari che si compiono alla ricerca delle risorse finanziarie. Queste sono tutte riconducibili a un’analisi rigorosa di fattibilità che preservi l’ambiente e gli spazi del vivere collettivo individuando mezzi e strumenti che impediscano gli sprechi: insomma un insieme di obiettivi che articolano forme adeguate di garanzie e controlli che il pubblico deve mettere in atto perché la trasformazione urbana non sia un fallimento. In sintesi, un processo che eviti di cadere negli errori che proprio la vicenda dell’Expo ha rappresentato nel lungo percorso che ha visto ridimensionato nel tempo il masterplan iniziale: prodotto dell’agire senza un limite e tra velleità di ogni genere.

Si è visto, infatti, qual è il risultato raggiunto dall’ambizioso parco planetario con canali navigabili e cascate d’acqua ridotto a una combinazione di volumi dalle forme eccentriche, sfoggio di design e tecnologie ma incapaci di innescare, come sarebbe potuto accadere, una virtuosa catena di fatti urbanamente significativi. Quelli che Milano attende da troppo tempo.