Molto è stato detto dei vistosi sbandamenti dei leader populisti in tempi di pandemia e competenza scientifica. Altrettanto è stato scritto circa le pulsioni autoritarie e gli eccessi polizieschi verso cui scivolano stati d’emergenza più o meno dichiarati in diversi paesi e contesti.

La fase di pandemia che stiamo vivendo non è certamente l’ultima, ma pare caratterizzata da un capovolgimento dei ruoli, con la destra sovranista e populista non più intenta a cavalcare l’estensione dei poteri dell’esecutivo o a predicare militarizzazione, ma piuttosto protesa a minimizzare la minaccia Covid.

Un po’ ovunque nel mondo i leader populisti cercano di far leva su difficoltà e malcontento di ampi strati sociali, sposando la ‘causa della libertà’, immancabilmente declinata come apertura economica e assembramento religioso.

Come classificare, lungo la strada che ha portato all’abbandono del distanziamento sociale da parte della Casa Bianca e di una ventina di stati americani, le parate di miliziani armati che hanno accompagnato agli appelli di Donald Trump alla liberazione [sic] dalle costrizioni del lockdown? Certo, fa impressione vedere fucili d’assalto accanto a militanti pro-life che inneggiano a selezione darwiniana e sacrificio dei più deboli. Ma proprio questo è il messaggio, e la dinamica è innescata.

Ogni sabato a Berlino si tengono Hygienedemo davanti al teatro Volksbühne: organizzate inizialmente da frange militanti della sinistra anticapitalista al grido di noi siamo il popolo, le manifestazioni sono andate allargandosi ambiguamente, raccogliendo centinaia di teorici della cospirazione alla presenza sempre più esplicita e scoperta dei leader dell’estrema destra tedesca.

Anche se, in ragione di diversità di struttura economica e demografica, il virus ha un impatto diverso in diverse regioni del globo, è un fatto che le risposte alla pandemia hanno inibito ovunque la mobilitazione politica dal basso. Abituati da più di un anno a scendere massicciamente in piazza ogni singolo venerdì contro i tentativi di restaurazione del ‘sistema’, milioni di algerini hanno infine dovuto desistere. Simili esiti si registrano in Russia, India, Indonesia, Kazakistan, Iran, Iraq, Sudan.

In Europa le garanzie tipiche di un ordinamento liberal-democratico sono sospese sine die nell’Ungheria di Viktor Orbàn, grande alleato della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni (la stessa Giorgia Meloni che in Parlamento denuncia la soppressione dello stato di diritto in Italia). Il più esplicito è stato il dittatore ugandese Museveni, secondo il quale siamo in guerra, e in guerra non è ammesso intestardirsi a chiedere diritti, né tantomeno sono ammesse lamentele se le restrizioni fanno mancare pane e burro. In alcuni paesi si sono visti paramilitari imporre il coprifuoco a briglia sciolta, e la repressione ha fatto più morti che il contagio.

Un po’ ovunque, insomma, gli esecutivi hanno esteso forme di controllo repressivo, talvolta con stratificazione di stati d’emergenza: alle misure anti-virus si sommano quelle anti-terrorismo, con conseguente mano libera agli apparati di controinsorgenza (es. Kashmir). Ovunque, è la festa dei provider dei servizi di sorveglianza e tracciamento.

Tuttavia, la pulsione autoritaria che permea le risposte dei governi coglie solo una parte, e non necessariamente la più insidiosa, dei disegni autoritari in circolazione. Con la spregiudicatezza tattica e l’insofferenza per la mediazione istituzionale che gli sono consone, il mondo sovranista cova un distinto progetto autoritario di cui al momento sta testando le possibili saldature di consenso, in cerca di una narrazione di successo.

Una sintesi ci è offerta dal futurologo conservatore George Friedman, già direttore del think tank Stratfor, in voga presso la destra italiana in quanto propugnatore dell’idea del ritorno delle nazioni dopo l’impostura rappresentata dal ‘regno di tecnocrati ed esperti’.

Pronto a dare alle stampe il suo ultimo distillato geostrategico per celebrare sin dal titolo il ‘nuovo secolo americano’, Friedman deve aver fiutato l’inceppo nell’aria: e così in tempi di assenza di leadership globale da parte di Washington in materia di coronavirus, e ha virato verso una più sobria titolazione che annuncia la grande discordia americana, la ‘crisi degli anni 20’, e infine sposta il trionfo a stelle e strisce negli anni a seguire. Nel suo ultimo intervento ospitato sulla sua Geopolitical Futures, Friedman compie un’azione che merita attenzione.

Mette insieme senza troppo riguardo un po’ di tutto: gli scontri nella banlieue parigina, le dimostrazioni berlinesi, le proteste legate al Ramadan in Pakistan, quelle degli ebrei ortodossi in Israele, le tensioni politiche negli Stati Uniti (per inciso, la lista manca dei tumulti per la preghiera avvenuti in Niger, ma si sa che agli occhi della geopolitica l’Africa non arriva segnalarsi come dotata di volontà politica propria).

Ecco dunque arrivare i tanto attesi segnali del lento ma inesorabile montare dell’insofferenza popolare verso il lockdown, l’arbitrario stato di costrizione, l’ordine vessatorio e soffocante imposto dalle élites. Ed ecco il vaticinio: dopo che la scienza medica, impotente, ha passato la palla ai politici, stiamo entrando nella fase in cui la società si attiene sempre meno alle loro insostenibili prescrizioni di distanziamento sociale: assistiamo a pressione economica e resistenza sociale, con crescita del numero di coloro che non sono più disposti ad obbedire.

Gradualmente la non osservanza delle regole attecchirà nelle situazioni meno tollerabili, fra i working poors rinchiusi con prole in piccole case. Insomma, entropia sociale in piena accelerazione, nientemeno che l’esplicito inizio di una rivolta sociale organizzata politicamente.

La base scientifica del ragionamento è nulla, ma schema è in fondo noto: gli stessi gilet jaunes francesi possono essere visti come espressione della capacità politica di organizzare, anche superando schemi destra-sinistra, una forma diffusa di esasperazione sociale vissuta da fasce di popolazione che ritengono di aver già pagato crisi e ristrutturazione, e che davanti all’aumento del prezzo del diesel hanno opposto il rifiuto a pagare loro il conto della transizione ecologica.

Il sovranismo è un insieme piuttosto instabile di discorsi e proiezioni ideologiche che sostanzialmente lavorano per il ritorno al nazionalismo. In tempi di Covid pare dunque affacciarsi una variante estremamente spregiudicata e fluida, che teorizza la liberazione dalle élites e va ben compresa, evitando di pensare che l’apparire del bagliore della scienza che illumina l’azione di governo potrà da solo fugare visioni e narrazioni populiste prive di costrutto scientifico.

Metà della forza lavoro globale vede il proprio standard di vita a rischio nei prossimi mesi. L’economia italiana si è contratta del 5% – al pari di quella USA, proiettata su un crollo fino al 20%.

La ripresa sarà lenta e presenterà in autunno un conto estremamente pesante. In queste condizioni di crisi senza precedenti, anche in presenza di cure e vaccino pensare di essere traghettati in salvo dalla ‘miglior scienza disponibile’ è illusorio. Come ha argomentato recentemente la sociologa Jana Bacevic sul Guardian, la scienza non è un oracolo: la relazione fra scienza, politica e società è questione storicamente complessa, e non solo perché gli scienziati sono spesso in disaccordo, o perché notoriamente esiste un’economia politica della ricerca scientifica.

La consulenza scientifica riflette scelte politiche che caratterizzano una determinata società: basti pensare al fatto che il comitato tecnico-scientifico nominato dalla Protezione Civile sia composto da 21 eminenti luminari tutti rigorosamente di sesso maschile, e che non sia stato ad oggi possibile emendare tale ‘composizione saudita’. Il nuovo coronavirus ha un impatto sproporzionato su diverse fasce sociali, e questo ha spesso a che vedere con domande che la politica non chiede alla scienza di studiare. Del resto, quanta ricerca può produrre in lockdown una giovane precaria, magari con prole e fuorisede, immersa in un ambiente che stenta a immaginare percorsi alternativi per le scuole e fatica ad accettare le differenze di genere?

Mentre nel mondo si discute dell’impatto sproporzionatamente pesante della pandemia su comunità immigrate e non bianche, l’Italia resta il paese in cui il Corriere della Sera si chiede come mai ci siano così pochi degenti neri nelle terapie intensive, ospitando la consueta, prevedibile banalizzazione sociobiologica del costrutto razziale.

Sicuramente ci sono diverse ‘fasi Covid’ da attraversare, e il dibattito continuerà a prendere nuove forme. Forse stiamo assistendo a una mutazione del virus populista, che fatica a tenere il consenso davanti a domande e risposte complesse, e dunque esalta la declinazione più individualista delle libertà, pur mantenendo ferma la propensione ad additare il colpevole: il cinavirus (come lo chiama Maurizio Gasparri), i tecnocrati filocinesi dell’OMS, gli immigrati, un governo che vuole sanarne la condizione lavorativa mentre cerca di soffocare le imprenditorialità per dare il potere ai soviet. 

Davanti ai conflitti che si annunciano, i meri appelli a scienza e collaborazione internazionale non basteranno. La pandemia mostra come libertà e salute del singolo esistono solo se sono assicurate quelle di tutti: a partire da questa declinazione al plurale, servono soggetti politici che nell’arena locale, nazionale e internazionale siano capaci di investire su spazi di condivisione e responsabilità sociale: un patto con le generazioni precarie che riscriva le regole del gioco.