Stiamo vivendo una forte accelerazione dei processi economici e securitari che stanno trasformando nel profondo le nostre società. Abbiamo a che fare con un’accelerazione del processo di uscita dalla democrazia. Da una parte vi è la potenza rinnovata dell’offensiva rivolta contro i diritti sociali ed economici dei lavoratori; dall’altra parte, la moltiplicazione dei dispositivi securitari rivolti contro i diritti civili e politici dei cittadini. Stato d’emergenza anti-sociale in nome della disoccupazione e della perdita di competitività da un lato; stato d’emergenza securitario permanente dall’altro: le due vie d’uscita dalla democrazia e dallo stato di diritto si completano e si appoggiano reciprocamente.

Uscita accelerata dalla democrazia per mezzo di questa duplice e connessa radicalizzazione, neoliberale e securitaria: questa è la diagnosi che si può fare della dinamica politica dominante nella quale siamo coinvolti. La radicalizzazione neoliberale è proprio uno dei fenomeni che maggiormente caratterizzano il periodo che stiamo vivendo. Come spiegare questa radicalizzazione neoliberale? Perché e in che modo il neoliberalismo è uscito più forte dalla crisi? Questa radicalizzazione deriva dalla razionalità dello stesso neoliberalismo. La crisi, che è la conseguenza delle politiche neoliberali, è in effetti anche la causa di questa radicalizzazione neoliberale. La crisi, in tutte le sue forme, e alla luce degli aspetti più oggettivi come di quelli più retorici della propaganda ufficiale, è al tempo stesso il principale strumento e il principale argomento della disciplina che è oggi imposta alla popolazione e ai lavoratori. Questa crisi, al tempo stesso conseguenza e causa della radicalizzazione, è diventata uno strumento di governo, una razionalità per governare, un argomento costante delle riforme dette strutturali.

Definizioni minime

Ecco ciò che vorrei approfondire: la radicalizzazione neoliberale appartiene al sistema di governo per mezzo della crisi, e aggiungerei, di governo per la crisi, poiché la crisi è l’unico orizzonte, l’unico fondamento, l’unica legittimazione delle oligarchie dominanti. Per essere ancora più precisi, c’è uno stretto rapporto tra la radicalizzazione del neoliberalismo e l’uscita dalla democrazia, uscita dalla democrazia che è precisamente ciò che spiega la radicalizzazione attraverso un nodo scorsoio. Parlare di radicalizzazione del neoliberalismo presuppone che ne si dia una definizione minima.

Il neoliberalismo è molto più di un insieme di dottrine, di scuole teoriche o di autori che sono peraltro molto diversi e, su alcuni aspetti, opposti. Non è nemmeno un certo tipo di politica economica che procederebbe dalla stessa volontà di indebolire lo stato a vantaggio del mercato. Il neoliberalismo non è un «ultra-liberalismo», un «libertarianismo» o un ritorno ad Adam Smith. Le confusioni che esistono su questo punto sono progressivamente diminuite. Il neoliberalismo è un certo tipo di intervento politico, una determinata tecnica di governo, una certa strategia di trasformazione della società.
È una razionalità politica globale, una logica normativa che riguarda tutti gli aspetti della società, tutte le dimensioni della vita. Foucault aveva ben compreso un certo numero di proprietà specifiche e caratteristiche di un certo tipo di sistema di governo: la regola generalizzata della concorrenza e l’universalizzazione del modello dell’impresa. Non poteva evidentemente prevedere l’ampiezza e la profondità delle trasformazioni che questa logica normativa avrebbe introdotto nelle nostre società a partire dagli anni ’80.

Noi possiamo per esempio meglio vedere come gli stati sono stati allo stesso tempo degli agenti delle trasformazioni economiche e sociali e allo stesso tempo il bersaglio delle riforme neoliberali per la messa in atto di nuovi metodi di gestione fondati sulla «performance». Non possiamo allo stesso modo renderci conto del modo in cui il neoliberalismo modifica e rimodella le soggettività attraverso tutti questi dispositivi che conducono ciascuno a considerarsi come un «imprenditore di se stesso». Nel sistema neoliberale, l’Unione europea ne dà un’immagine particolare.
Il «progetto europeo» si rileva come il processo di costruzione di un mercato che si è progressivamente dotato di sue specifiche regole di funzionamento, di un suo autonomo apparato istituzionale incaricato di espanderlo, mantenerlo, rinforzarlo. Come messo in luce con Dardot, è il programma ordoliberale di costruzione di un «ordine del mercato» o di un «ordine della concorrenza» che ha determinato la direzione della costruzione europea sin dall’origine, anche se quest’ultima sarà portata a compimento successivamente, in funzione dei rapporti di forza interni all’Europa e nell’ambito di un contesto mondiale molto più favorevole. L’accordo iniziale che non è mai stato messo in discussione era il seguente: la «comunità europea» deve essere organizzata come un mercato regolato, non attraverso delle regole sociali o dei principi morali, ma per mezzo delle regole concorrenziali, e collocata in un ambito di stabilità monetaria, il tutto garantito tramite organismi indipendenti dalle politiche nazionali. Si deve proprio agli ordoliberali l’idea per cui la regola fondamentale della «costituzione economica» europea è la concorrenza libera e non falsata, formula che si trova già nel trattato di Roma del 1957. Questo è il principio fondamentale e centrale del diritto economico e dell’ordine politico della comunità europea, poi dell’Unione europea.

È in questo contesto che progressivamente la sinistra classica, parlamentare e riformista, si è essa stessa incamminata sulla via dell’autodistruzione, dell’autosabotaggio, del suicidio piegandosi sull’altare del «senso di realtà» o del «senso di responsabilità» alla logica dominante. Ha perso progressivamente ogni autonomia via via che i margini di manovra si restringevano e soprattutto che i partiti oligarchici di sinistra interiorizzavano le norme neoliberali e conducevano la stessa politica dei loro avversari. Si può peraltro essere ancora più severi. La sinistra in questione non si è solamente adattata al neoliberalismo, non è stata solo vittima di una realtà che si è imposta e l’ha condotta a cambiare direzione rispetto alla sua storica ambizione redistributrice ed egualitaria.

L’ardire di pensare

Dopo gli anni ’80, la sinistra è agli avamposti della realizzazione della razionalità neoliberale. Questo carattere sistemico del neoliberalismo rende possibile una strumentalizzazione della crisi come sistema di governo, come fattore di radicalizzazione, di auto-rafforzamento. Il neoliberalismo lavora in realtà attivamente per disfare la democrazia. Impone, progressivamente, un quadro normativo globale che ingloba individui e istituzioni in una logica implacabile disfacendo le capacità di resistenza e di lotta neutralizzando il collettivo. Questa logica non indebolisce, ma si rafforza con il tempo. È questa natura antidemocratica del sistema neoliberale che spiega in grande parte la spirale della crisi. In assenza di margini di manovra, lo scontro politico con il sistema neoliberale diventa inevitabile. Si tratta di imparare la lezione della Grecia. Non si tratta di sapere se bisogna addolcire delle politiche troppo dure, nemmeno se la Grecia, o un altro paese, deve uscire dall’euro. La posta in gioco è più ampia e universale. La lotta che si intraprende mira a riprendere l’iniziativa per vincere le oligarchie e imporre la democrazia. La logica alternativa, la logica del comune, non ha ancora trovato la sua espressione di massa, i suoi assetti istituzionali, la sua grammatica politica. Noi non siamo che allo schizzo di una nuova configurazione alternativa.
Non tutto è perduto, non esiste un destino inesorabile, ma la ricostruzione delle forze di opposizione si fa attendere, nonostante i movimenti sociali, le sperimentazioni politiche, i movimenti che si oppongono alla globalizzazione. Questo ritardo storico è molto inquietante perché la società, come la natura ha paura del vuoto. La mia convinzione è che la sinistra (ciò che ancora si può chiamare sinistra) sia rimasta senza immaginazione. Io credo che occorra aprire degli orizzonti, l’ardire di pensare, immaginare un’altra società possibile. Io credo che questa è la posta in gioco di questo cantiere mondiale che si chiama «comune».