«Gange, in sanscrito, vuol dire acqua – spiega l’artista indiano Velu Viswanadhan parlando del suo video L’eau – Ganga (1985) -. Il liquido che si muove più velocemente di qualsiasi altro. Per gli indiani, il Gange è fondamentale: la vita viene dall’acqua e lì torna. È un rituale. Senza l’acqua, infatti, non ci può essere la vita. Il mondo intero ne è a conoscenza e ovunque, nelle società più antiche, il controllo dell’acqua è sempre stato fondamentale. Shiva, divinità indù, è raffigurato con il trishula, un tipo di tridente con cui cerca le sorgenti, infatti è il controllore dell’acqua. Il Gange scivola sulla sua chioma per non spazzare via il mondo con la sua irruenza e forza». Questa manciata di parole (che introducono a un video di due ore e mezza) sono anche l’essenza della mostra Aqua. Gli artisti contemporanei e la questione dell’acqua (fino al 2 luglio), curata da Adelina von Fürstenberg e organizzata da «ART for the World» che – non a caso – è stata inaugurata a Ginevra, città d’acqua, proprio nella Giornata mondiale dell’acqua istituita dal 1992 dalle Nazioni Unite.

Un’occasione per riflettere sui diversi aspetti connessi a questo liquido incolore che si presenta anche come vapore acqueo o allo stato solido di ghiaccio. «Sappiamo che le attività umane hanno un impatto diretto sulle risorse naturali, così come su animali e piante, con cui condividiamo la terra – afferma la curatrice -. Ecosistemi danneggiati, cambiamento climatico, specie in pericolo di estinzione, la sopravvivenza della fauna selvatica in aree sviluppate, ecc. ci spingono a mettere in discussione il rapporto tra gli esseri umani e altre forme di vita. L’acqua è essenziale alla vita per tutti gli organismi viventi; tuttavia, affrontando un ampio spettro di interessanti domande, l’acqua è diventata una grande sfida globale del nostro mondo contemporaneo. A chi appartiene l’acqua? L’acqua è un bene privato o una risorsa pubblica?».

LO CHÂTEAU DE PENTHES (Musée des Suisses dans le monde) diventa, quindi, un grande recipiente per un’immersione poetica e simbolica, ma anche inequivocabilmente realistica attraverso i lavori di artisti appartenenti a diverse generazioni, background e nazionalità, dal Senegal al Portogallo, Argentina, Francia, Israele, Giappone, Italia ed altri ancora: Omar Ba, Nigol Bezjian, Clemente Bicocchi, Stefano Boccalini, Alighiero Boetti, Benji Boyadgian, Jonathas de Andrade, Silvie Defraoui, Michel Favre, Noritoshi Hirakawa, Francesco Jodice, Ilya et Emilia Kabakov, Shin Il Kim, Alexander Kosolapov, Iseult Labote, Salomé Lamas, Marcello Maloberti, Andrea (Bobo) Marescalchi, Carlos Montani, Marcelo Moscheta, Stéphanie Nava, Luca Pancrazzi, Dan Perjovschi, George Pusenkoff, Shimabuku, Eduardo Srur, Barthélémy Toguo, Maria Tsagkari, Velu Viswanadhan, Gal Weinstein, Vasilis Zografos.
«Per la mostra ho realizzato dei disegni intorno all’idea della politica dell’acqua, un argomento molto complesso», spiega Dan Perjovschi, che sulle pareti bianche ha tracciato i suoi disegni diretti ed ironici. Ma l’amaro c’è – eccome – quando cancella le lettere «te» dalla scritta «water» e ciò che si legge è la parola «war». «Uso spesso l’ironia nel mio lavoro. Sono cresciuto in Romania durante la dittatura comunista. Il paese era molto chiuso. A quei tempi è stato terribile. Ho imparato ad usare l’umorismo come arma: un linguaggio di per sé. Così è diventato parte del mio lavoro. La mia arte è molto semplice, così la gente non si spaventa. Spesso, infatti, l’arte contemporanea risulta così ermetica e talmente sofisticata da respingere lo spettatore. Sono diretti perché vivamo nell’era delle immagini, ne siamo sommersi, ma non c’è abbastanza tempo per guardarle».

2 Marcello Maloberti, Kubec, 2017 (part.) (ph Manuela De Leonardis)
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Anche Kubec, l’installazione dell’italiano Marcello Maloberti è stata realizzata per la mostra Aqua. È un lavoro sull’assenza e sul silenzio in cui la natura interagisce con l’opera stessa prospettandone nuove declinazione. Tra le pratoline fiorite sono sparsi una serie di caschi militari realmente appartenuti ai soldati (Kubec è il nome inciso all’interno di uno dei caschi che l’artista ha scelto come titolo dell’opera) capovolti verso l’alto in modo da contenere l’acqua piovana, ma anche rispecchiare le nuvole e fungere da abbeveratoio per gli animali. Il lavoro s’ispira ad una foto del fallito golpe a Istanbul che ha colpito molto l’immaginazione di Maloberti: tutti quei caschi abbandonati nella piazza hanno evocato in lui lo scenario di una guerra appena finita. Egli immagina che l’elmetto diventi una sorta di bicchiere per raccogliere la pioggia, ribaltando la visione legata alla morte in qualcosa di immediatamente vitale.

LA CIRCOLARITÀ di questi volumi che sembrano tanti piccoli laghi è ripresa anche nell’installazione One More Garden, One More Circle (2013), realizzata la prima volta al Museo d’Arte Contemporanea di Atene dall’artista greca Maria Tsagkari. Un fragilissimo giardino destinato a sparire che riproduce ottocento fiori di settanta specie. «Il mio obiettivo era creare un giardino che non avesse le caratteristiche di tutti giardini – spiega Tsagkari -. Nessun colore, nessun suono, nessun odore, nessun movimento, ma un vero giardino “secco” fatto con materiali che sono la fine del materialismo, perché la cenere è la fine di tutto. Un giardino che non ha bisogno d’acqua e di cui, alla fine della mostra, raccolgo e conservo le ceneri in un recipiente di vetro per riutilizzarle per l’installazione successiva. Così la materia preserva la memoria del lavoro precedente».

Quanto alle difficoltà che si affrontano quotidianamente per la mancanza di acqua potabile sono incentrati, in particolare, i cortometraggi di Francesco Jodice A water Tale, realizzato nel 2008 in occasione del 60esimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e Me, Water, Life (2017) di Nigol Bezjian sui campi profughi siriani in Libano. «Questo film di dieci minuti è frutto di otto ore di girato e sedici di editing, ma prima c’è stato molto lavoro preparatorio anche perché i campi sono molto distanti da Beirut e non è stato facile stabilire un rapporto di fiducia con le persone – spiega il regista armeno-siriano -. Ci sono solo i suoni della natura e talvolta il suono dell’acqua è esagerato per enfatizzare il momento. Il film racconta dettagli legati all’uso dell’acqua, come lavare i cibi, a cui normalmente non si fa caso. Dettagli che ci fanno capire quanto l’acqua sia preziosa».

IN MOSTRA il contributo poetico è sottolineato dalla tela dipinta di bianco di Luca Pancrazzi Fuori registro (3000 metri) (2014), un’opera di grande respiro che traduce l’onnipresenza dell’acqua. Grande come il giaguaro gonfiabile (in questo caso in termini di scala) del brasiliano Eduardo Srur, che è ancorato sull’Ile Rousse. Il felino a rischio d’estinzione ha la lingua che sfiora il suolo, una presenza che non passa inosservata nella città che lo ospita. L’ironia e la spettacolarizzazione convivono con la simbologia più antica del giaguaro che incarna la forza, il coraggio indomabile e anche, in una chiave più sciamanica, il ruolo di messaggero. Quanto al titolo Hora da Onça Beber Água (è l’ora per il giaguaro di bere l’acqua) è un modo di dire per indicare che il momento è difficile e bisogna prendere una decisione importante.