Lacrime, indignazione, il racconto di una famiglia e una carriera devastate dal trauma, di una reputazione infangata, di minacce di morte: ventisette anni dopo Clarence Thomas/Anita Hill, da un’aula della Commissione Giudiziaria del Senato USA è arrivato un altro momento di televisione indimenticabile. Come quella volta, in una maratona live di circa sei ore, si sono scontrati i racconti di una donna –un’accademica colta ed educata- e quelli di un giurista di successo nominato alla Corte Suprema, accusato di averla molestata o (nel caso odierno) aggredita sessualmente.

Come l’altra volta, lei è stata pacata, professionale – imbarazzata dall’attenzione. Come l’altra volta, lui ha optato per una performance teatrale, senza rete: nel rebuttal alle accuse di molestia, Clarence Thomas era ricorso al complotto contro la (sua) razza. Il complotto, secondo Brett Kavanaugh, era quello «della sinistra» (condito della «vendetta dei Clinton», che non mancano mai), arricchito del cliché squisitamente femminile di una vera e propria crisi di nervi, con pianto, autocommiserazione, visioni apocalittiche (la carriera e la famiglia rovinate per sempre sarebbero le sue) alzate di voce e interruzioni varie.

Perdendo le staffe – come gli aveva consigliato di fare Trump, espertissimo di assunzioni e licenziamenti via piccolo schermo- Brett Kavanaugh potrebbe aver salvato la sua poltrona alla Corte Suprema. Contro molti pronostici che, dopo la testimonianza, vivida e credibilissima, di Catherine Blasey Ford, lo davano per spacciato. La drammatica entrata in scena del giudice federale raccomandato alla Casa Bianca dalla iper- reazionaria Heritage Foundation, verso le due e mezza di pomeriggio, ha improvvisamente risvegliato l’umore depresso dei senatori repubblicani presenti che, ringalluzziti dalla bellicosità di Kavanaugh, hanno licenziato sui due piedi Rachel Mitchell, il procuratore dell’Arizona dietro a cui (tutti uomini e bianchi) si erano nascosti per interrogare Blasey Ford, unendosi alla performance, come un coro greco.

Il premio degli istrionismi più nauseanti -anche quelli a beneficio dell’ufficio collocamento della Casa bianca- va a Lindsay Graham, affiancato da Orrin Hatch, una reliquia delle audizioni Hill-Thomas. Da parte loro, i democratici sono sembrati presi in contropiede – arroccati sulla richiesta logica di un’inchiesta FBI- hanno spesso ripetuto le stesse domande. Erano imbarazzati -come sempre succede con i senatori maschi se si parla di sesso- quando cercavano di associare il giudice tutto chiesa e famiglia (e – dice lui – vergine fino in età adulta) a un trascorso studentesco alla Animal House. «Bevevo birra. Ogni tanto una di troppo» è più o meno tutto quello che sono riusciti a strappargli.

Il cosiddetto «elefante nella stanza», l’assenza in aula dell’amico d’infanzia Mark Judge, che Ford dice fosse insieme a Kavanaugh mentre l’ha assalita, e che ha scritto un libro intitolato Wasted, sulle sue epiche sbornie di gioventù.
Per chi guardava da casa, e riusciva a dissociarsi dalla logica di The Apprentice, il meltdown di Kavanaugh evocava l’immagine di un uomo iracondo, egocentrico, ipocrita, vittimista, potenzialmente vendicativo, che non esita a ricorrere continuamente a Dio, alla Chiesa e a teorie del complotto. Il peggior mix che ci si può auspicare alla Corte Suprema. Forse i democratici potevano avventurarsi su quel tasto. «Oggi Kavanaugh ha dimostrato perché ho nominato lui», ha twittato Trump giovedì sera, felice. Per una volta diceva la verità.

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