Nella nota precedente del Divano, dopo aver ricordato i continui e ripetuti studi eseguiti da Francis Bacon sul Ritratto di Innocenzo X di Diego Velázquez e i suoi richiami, nelle variazioni su quel tema, a L’urlo di Edvard Munch, accostavo a quella di Bacon la coeva opera di ritrattista di Pietro Annigoni, pittore di rarissimo talento e di elevata cultura.

Lo spunto a l’accostamento mi veniva, per dir così, autorizzato dallo stesso Annigoni che dice, in un suo diario del 1963, Bacon «continua a ossessionarmi come un lontano richiamo». E dichiara di sentirsi, di fronte ai suoi quadri, «fortemente scosso». Cerco di comprendere il senso di questo lontano richiamo e dello smuovere interno e di quell’assillante turbare che i ritratti di Bacon inducono in Annigoni.

Provo a indagare col pormi innanzi agli occhi due autoritratti tra i molti delineati da Annigoni nel corso della sua vita. Si tratta di due tempere grasse su tela, pressoché uguali nel formato (44×30 cm. l’una, 45×35,5 cm. l’altra).

Esse (l’artista è nato nel 1910) datano agli anni 1945 (Collezione Annigoni, Firenze) e 1946 (Collezione Annigoni, Ronta, Borgo San Lorenzo).

Nel primo autoritratto il colore è conferito con una certa diluizione che lascia in vista, non copre la trama ruvida e grossa della tela. Il pittore si volge verso l’osservatore e lo fissa d’uno sguardo che è quasi di interrogazione, come di chi sia distolto da una sua occupazione da una presenza imprevista e per ora silenziosa.

Ma questo è anche lo sguardo che, nel riflesso dello specchio, egli rivolge a sé stesso (al sé stesso, richiamo lontano che intende seguire, ovvero che sta seguendo – eseguendo – ora, nel momento in cui vien componendo l’immagine?). Veste un blusone dalle larghe pieghe, accennate da pennellate rapide e conferite alla prima, con ripassi leggeri di azzurro e minimi ritocchi aggiunti color mattone.

Un effetto ottenuto di getto che imprime la cifra dominante dell’intero dipinto. Sul fondo scuro, in un sentore di combusto e di fumo che ti comunicano i toni di antracite e carbone, solo il volto accoglie in pieno la luce. Si poggia sulla fronte, dà rilievo al naso ed alla bocca che una barba né oggi né ieri rasata sottolinea.

Osservo ora l’autoritratto del 1946. È, riguardo alla postura, una replica del precedente. E, d’acchito, potresti sostenere che questo secondo è il compimento del primo autoritratto che ora vedi portato a finitezza. L’altro parrebbe un abbozzo di questo. E avresti dalla tua, nel sostenere questa impressione, qualche buona ragione. Senza dubbio l’approssimazione con la quale Annigoni aveva tracciato l’affumicato fondo nella prima tela qui cede a una perfetta copertura bigia, cinerigna, stesa con perfetta uniformità.

E poi, il medesimo minuzioso lavoro di attenta stesura lo registri nel pigmento del panno del blusotto di lana greve, nel bavero ridondante tenuto stretto da un cordolo bianco che si adagia sulla falda d’una sciarpetta color mattone. Ora il pittore ha in testa una berretta, uno zucchetto che bene porterebbe un frate.

Vorresti credere che l’abbiglio, così magistralmente dipinto, è quello da tener caldo un frescante quando sulla impalcatura spende la sua giornata di lavoro.

È Annigoni nei panni di un pittore del Rinascimento che ti guarda prima di raggiungere gli aiuti sul ponteggio. E i tratti del volto, i medesimi nella stessa espressione del primo dipinto, sono qui resi con l’intensità di certe tavole fiamminghe di Van Eyck, o di Antonello, o di Lotto.

Cosi Annigoni ritrae sé medesimo non solo nei tratti del suo volto, ma nell’intento che anima la sua maestria di pittore: eseguire dipinti secondo le regole d’esecuzione, la probità del mestiere e i canoni formali della pittura rinascimentale.

Il suo sguardo ti dice che non tanto egli fa propri e svolge, assimila e reinventa quegli esempi ch’egli ritiene perfetti, ma quella loro perfezione, da lui tenuta come assoluta e una volta per sempre compiuta, per sempre egli si impone di replicare, di riprodurre, di duplicare, di ri-fare.

Ripetere nei secoli quella perfezione, venerarla secondo una liturgia giorno per giorno celebrata è la missione del vero pittore, dedito alla celebrazione di quell’arte fissata nel suo intatto fastigio.