Il primo effetto è quello di sorpresa. Ti trovi in sala per vedere La grande bellezza e ti sorbisci una serie di consigli per gli acquisti girati alla moda, cioè alla meno peggio. A volte i pixel risaltano in bella vista, a strisce. Insomma, ingoi qualche réclame e poi passi ai «prossimamente». Qualche film italiano di troppo, una commedia francese e poi una specie di UFO. Lo schermo si comprime in uno strano formato, ormai desueto, quadrato. Manca il colore. Si tratta del trailer di To Be Or Not To Be. Ernst Lubitsch l’ha girato tra novembre e fine dicembre del 1941, per la United Artists. Qualcuno lo ricorderà con il suo titolo italiano, Vogliamo vivere! Dobbiamo alla lungimiranza di Vieri Razzini (Teodora Film) la scelta un po’ folle, magnifica, di riproporlo in sala. Una scelta che sollecita inevitabilmente alcune questioni.

La prima è legata ad un aspetto tecnico. Durante il trailer percepisci intorno a te una specie di disabitudine gestaltica, che riguarda lo spazio occupato dall’immagine proiettata. Da tempo l’uomo comune del cinema non è più avvezzo a queste misure. Pensati per la superficie panoramica e allungata del 16:9 televisivo, i formati e gli schermi cinematografici odierni (così come coloro che li frequentano) hanno dimenticato misure come l’1.33:1 o l’1.37:1, riconducibili all’aspect ratio del 4:3.

Certo, le eccezioni non mancano: sia The Artist, distribuito con successo due anni fa, che Tabu di Miguel Gomes, rievocano i fasti dell’1.37:1. Due eccezioni dal sapore rétro e postmoderno. Nondimeno, quei formati restano oggi fossili da archeologia cinematografica, tanto che i proiezionisti (altra categoria in via d’estinzione) non si premurano più neppure di conservarne il mascherino. Annusando l’aria, Eric Rohmer aveva girato nel 2007 Les amours d’Astrée et de Céladon utilizzando un formato panoramico (1.85:1) ma «aggiustandolo», inserendo strisce nere ai lati, in fase di stampa, per poterlo proiettare nel formato desiderato, l’1.33.1 appunto. Eppure questo era il formato princeps nei lontani anni ’40. Prima del CinemaScope, che tanto aveva fatto imbestialire Fritz Lang, adatto ai funerali e ai serpenti (l’aveva capito benissimo Roy del Ruth, che nel 1959 realizza in quel formato The Alligator People, un magnifico horror su un uomo-alligatore) e prima dello schermo panoramico, il formato 1.33:1 aveva dominato incontrastato nelle sale cinematografiche.

Poi, a partire dagli anni ’50, la sua lenta ma inesorabile consunzione. Tutto il miglior cinema hollywoodiano è stato realizzato così. Pensate a John Ford, Howard Hawks, Jacques Tourneur, Raoul Walsh, Alfred Hitchcock. Sì era giunti ad una tale perfezione nella composizione dell’inquadratura che con l’arrivo del VistaVision e del CinemaScope tutto appariva improvvisamente sottosopra e fuori misura.

È forse questa la sensazione che coglie lo spettatore odierno, ma rovesciata di segno? Posto di fronte a un formato a lui quasi sconosciuto, percepito magari in fugaci visioni casalinghe, su dvd, egli chiederà alla maschera di modificarlo, considerando un’aberrazione tutto quello spazio vuoto ai lati dello schermo? Ovviamente questo è solo un paradosso. Restaurato da Studio Canal, distribuito in sala da Teodora Film in 14 copie (Milano, Bologna, Padova, Roma, Torino, Firenze, Venezia, Vicenza, Bergamo, Genova, Bari, Trento), il film di Lubitsch uscirà in formato digitale, in DCP, non in pellicola. Nessun problema di mascherino dunque, nessuna bobina o piatto. Nessun vecchio proiettore munito di lampada allo xeno.

Questo aspetto ci spinge ad altre considerazioni. Nel 1942, quando il film viene distribuito e la sua star, Carole Lombard, perde la vita in un incidente aereo nel Nevada, To Be Or Not To Be esce indistintamente nelle maggiori sale d’America. È un film per tutti, pensato per un pubblico generalista (all’epoca, la rivista Variety lo considera un classico film da box office). Ma oggi? Nella maggior parte dei casi, il film viene distribuito nel ghetto delle cosiddette sale d’essai. Più qualche multisala che coraggiosamente unisce programmazione d’essai e intrattenimento. È insomma disponibile per un pubblico di cultura medio-alta: da terziario avanzato, magari frequentatore di festival. Per questo può essere presentato – meritoriamente – in versione originale, con sottotitoli italiani. E in bianco e nero (più tutti i grigi che è riuscito a trovare il direttore della fotografia, Rudolph Maté). Ma quanto sarebbe affascinante testarne l’effetto proprio in quei terminal aeroportuali che sono i multiplex (biglietto, check in, decollo in proiezione), tra blockbuster e mondi in 3D. Insomma, è un bel salto rispetto alla connotazione popolare che il film aveva negli anni ’40. Questa ovviamente non è una critica, piuttosto una semplice constatazione, in grado di evidenziare una modificazione antropologica legata al cinema e a chi lo frequenta.

Com’è dunque possibile che un film degli anni ’40 venga distribuito in sala? Il fatto è – e la notizia ci sembra degna di interesse – che il «restauro digitale» dei film del passato, modello Cannes Classics, sembra ormai essere diventato un «genere» in grado di attirare fasce di pubblico, ed avere quindi un mercato (chi vive a Parigi questo lo sa già da tempo).

Non è il caso di entrare ora in diatribe etiche legate alla scelta di presentare vecchi film in pellicola in formato digitale. È materia complessa (ma il fatto che la Fiaf, la Federazione Internazionale degli Archivi del Film, stia da tempo discutendo l’ingresso delle majors all’interno della Federazione la dice lunga sull’indirizzo futuro). Ci basti sapere che qualche laureato in economia al lavoro negli Studios, qualcuno a cui magari sia capitato di sfuggita di vedere un film, deve aver pensato che riproporre anche in sala vecchie pellicole restaurate e in digitale possa essere un buon investimento, piuttosto che produrre costosissimi e fallimentari remake. Così, Cleopatra (un kolossal del passato) viene oggi proiettato nei multiplex. La stessa sorte, per un pubblico più mirato, tocca a To Be Or Not To Be. Si tratta di una piccola avanguardia incaricata di testare la reazione del pubblico italiano?

Per il resto, che dire di questo film che non sia già stato detto? Come tutti i film di Ernst Lubitsch – questo tedesco emigrato in America nel 1922, su invito di Mary Pickford – Ma si ride del «maestro» Joseph Tura, primo attore di una bizzarra compagnia teatrale, alle prese con il famoso monologo shakesperiano dell’Amleto; ammiriamo la bellezza, la bravura di Carol Lombard; ci si commuove, e veniamo colti da uno strano brivido, mentre sullo schermo viene pronunciato e «spostato» un altro monologo, ripreso questa volta da Il mercante di Venezia. Ci stupiamo ancora per la perfezione della sceneggiatura: una macchina che non si inceppa mai, che macina situazioni e dialoghi perfetti, a pieno regime, senza cadute, mentre gli attori si sfidano verbalmente a velocità da formula uno. E che dire della precisione delle inquadrature? Non una di troppo, compreso tutto quello che accade fuori campo. Insomma, Hollywood al suo meglio.

[do action=”citazione”]To Be Or Not To Be è un’opera memorabile, uno spasso prolungato che corre sul filo del desiderio e, insieme, del terrore (Hitler, i campi di concentramento, la distruzione di Varsavia donano al film un alone luttuoso, di minaccia incombente).[/do]

Da oggi in alcune sale potrete assistere ad un strano evento: sullo schermo potrebbe materializzarsi un quadrato contenente immagini mobili in bianco e nero. È la cosa più bella che possiate incontrare al cinema, oggi.