Un programma eclettico e ad ampio spettro quello immaginato da Emanuela Martini per la 35.a edizione del Torino Film Festival. Non stupisce, quindi, che in poche freddissime giornate d’inverno, si possa passare con certa sfacciata nonchalance dalla cinefilia più radicale a quella popolare, attraversando temi, paesi, intenzioni, pensati per soddisfare un po’ tutti gli appetiti, un po’ per tutti i gusti.

Non stupisce, quindi, che concentrati in poco più di una settimana, scivolando velocemente di sala in sala, si possano incontrare episodi della Storia italiana rivisitati, tragedie shakespeariane trasfigurate, racconti giovanili e di cronaca nera, drammi universali, biografie, commedie pop e musical d’autore, riletture del passato sovietico ex-post, sacche di resistenza alla globalizzazione, dichiarazioni d’amore e omaggi cinefili.

Nelle ultime ventiquattro ore, giusto per darne un assaggio, nello spazio di una sola mattina, siamo sprofondati in un progressivo flusso di coscienza, ipnotico e immersivo, che ci ha accompagnati allo scandaglio di uno dei periodi più complessi della Russia del ventesimo secolo, nel triennio 1989-1991, per ritrovarci poco dopo catapultati in una sorta di docu/performance, ammaliati dai racconti autobiografici di Suggs, noto soprattutto per essere il frontman dei Madness.

Del resto, come scrive nel catalogo Davide Oberto, curatore della sezione TFFdoc, «il cinema documentario è essenzialmente viaggio. Viaggio di scoperta di territori, genti, tradizioni mai incontrate. Viaggio non solo spaziale, ma anche temporale nel riscoprire archivi e ridar loro vita; è viaggio intimo, personale, familiare. È viaggio nelle immagini per costruirne di nuove (…) cercando di seguire tutte le suggestioni che la parola è in grado di evocare, tentando di disegnare con le immagini dei film che propone una cartografia delle passioni».

Risponde pienamente alla «mission», dunque, Chronicles of The Time of Troubles, inserito nella sezione TFFdoc internazionale, documentario concepito da Vladymir Eysner per rappresentare gli anni della perestroika, o almeno per provare a restituirne brandelli di percezione, attraverso lo smarrimento dipinto sui volti della gente comune nel triennio del loro sconcerto. Negli anni Novanta la Russia ha attraversato trasformazioni epocali, per molte persone questi cambiamenti hanno rappresentato uno shock.

Il racconto è diviso in tre parti e utilizza immagini di archivio in uno straniante bianco e nero, che sembra spostare l’orizzonte temporale ancora più in là, in un passato remoto e astratto abitato da nuove contraddizioni. Tra le sale da ballo che si affollano e le processioni, le stazioni della metro che al posto di un’idea di progresso comunicano destabilizzazione, dalle città alle campagne, dai fronti di rivolta armata alle piazze, su su fino allo spazio, da dove un cosmonauta saluta in controcampo i detenuti di un anonimo carcere, l’unico elemento comune risiede negli sguardi disorientati, smarriti, interdetti della gente. Un atlante di volti cui il regista si affida per ridefinire un’epoca.

Dai volti agli spazi urbani. Ciò che infatti riscatta My Life Story di Julien Temple dall’essere mera registrazione del musical teatrale diretto da Owen Lewis, dove il re del «one man show» impegnato a ripercorre vita e carriera risponde al nome di Graham Mc Pherson, in arte Suggs, è la geografia londinese con i suoi luoghi, costantemente rievocati come scenario di tempi andati e teatro di giocose scorribande giovanili. Soho, Covent Garden, Piccadilly Circus, Chelsea. Il Colony e i pub, immancabili sedi di scontro tra hooligan, mod, punk e rockabillies. Il seminterrato di uno studio dentistico, sede delle prime prove canore degli Invaders, solo in seguito i Madness, incontrastati sovrani dello ska. Una vera e propria dichiarazione d’amore per la Londra delle sottoculture.

E sono ancora le geografie a definire le pieghe oscure della provincia italiana, possibile scenario per gratuiti episodi di cronaca nera. È in quelle pianure divenute anonime, tra locali country, karaoke e cosplay, che si consuma il giallo Blue Kids, opera prima di Andrea Tagliaferri in concorso, purtroppo smarrita alla ricerca di un’autorialità troppo fosca, come le nebbie che avvolgono la val padana.