Rob ci aveva creduto davvero. Dal campetto sgangherato di Cinderheath, la cittadina operaia dove era nato, era finito a giocare, in prova, perfino all’Aston Villa. L’inizio era stato brillante, carico di attese e di sogni. Il ritorno alla realtà, altrettanto duro. Non ce l’avrebbe mai fatta è il suo orizzonte poteva al massimo contemplare una sfida tra dilettanti con la squadra della locale comunità musulmana.
Peccato che l’11 settembre ci fosse stato solo da pochi mesi e l’intero paese fosse mobilitato, in un’esibizione di nazionalismo e bandiere al vento, per il match tra Inghilterra e Argentina, ancora ai ferri corti dopo la guerra delle Falklands/Malvinas, della Coppa del mondo.
Heartland, il romanzo dello scrittore britannico Anthony Cartwright, pubblicato nel nostro paese da 66thand2nd (pp. 290, euro 17) non è un noir, anche se ne ha per molti versi il timbro, la lucida e inesorabile determinazione. Nello spazio di tempo di una partita, quella giocata nell’estate del 2002 da Beckham e compagni contro la nazionale di Buenos Aires in uno stadio giapponese, e quella che contrappone i giocatori un po’ sovrappeso figli delle famiglie operaie, bianche, della zona a quelli dell’emigrazione dal subcontinente indiano, sembrano decidersi le sorti di un intero mondo e affiorare tutte le ansie dell’Inghilterra degli ultimi anni: la crisi della grande industria, le crescita delle fratture etniche e religiose, l’emergere del razzismo e dell’estrema destra, ma anche i timori per il terrorismo islamico.
Sullo sfondo, una società ferita e in preda a rapide e imprevedibili trasformazioni, quella dell’ex distretto siderurgico delle West Midlans che si era guadagnato il nome di Black Country a causa della polvere nera che ha ricoperto per lunghi anni ogni cosa. Scenario che ha fatto da sfondo anche ad altri due romanzi di Cartwright, The Afterglow e How I Killed Margaret Thatcher, ancora inediti in Italia.
Facile scorgere un parallelo con il Red riding quartet, la quadrilogia con cui David Peace – un’autore inglese che non a caso Cartwright dichiara di amare moltissimo, insieme all’americano Don DeLillo di cui ricorda la scrittura concentrica e imprevedibile – ha raccontato le vicende di un’altra ex regione industriale, quella dello Yorkshire, attraverso le imprese di uno spietato serial killer. In Heartland non c’è bisogno di versare sangue per descrivere lo smarrimento e le ferite dell’anima di un’intera comunità che celebra in un sedicesimo di scontro di civiltà la propria perdita dell’innocenza.
Classe 1973, Anthony Cartwright è nato a Dudley nella Black Country e dopo essersi laureato in Letteratura inglese e americana e aver lavorato come operaio, barista e nella metropolitana londinese, insegna ora nelle scuole del Nottinghamshire. Lo abbiamo incontrato, nei giorni scorsi, al Cinema Palazzo occupato di Roma, in occasione della presentazione del progetto di calcio popolare dell’Atletico San Lorenzo.

In «Heartland» sembra dominare una sensazione di decadenza che va dal declino industriale dell’area in cui è ambientato il romanzo, alla crisi del Labour, il cui candidato locale, Jim, è minacciato dalla crescita dei consensi per l’estrema destra del British National Party anche tra i suoi elettori più affezionati, fino alla vicenda personale di Rob, il protagonista, che ha visto sfumare, anno dopo anno, il suo sogno di diventare un grande giocatore di calcio, ricco e famoso. Una scelta narrativa o una necessità?

Il mio punto di partenza nello scrivere questo romanzo è stato proprio quello di cercare di restituire la sensazione diffusa di perdita di status, di vera e propria decadenza che ha attraversato intere regioni dell’Inghilterra negli ultimi tre decenni. In realtà, si è trattato di una trasformazione, di un’evoluzione che però non sempre è stata colta così da chi l’ha vissuta o, sarebbe meglio dire, subita. Per come l’abbiamo conosciuta, la società industriale ha iniziato allora il suo declino, un declino che l’avrebbe portata quasi a scomparire ai giorni nostri. Parallelamente, è finita un’era anche della storia della sinistra: i laburisti hanno cominciato a cambiare pelle come racconto nel libro, dove un vecchio quadro di base si deve misurare con lo sviluppo del New Labour di Tony Blair.
Allo stesso modo, in questo medesimo periodo, si è trasformato il territorio – le vecchie fabbriche e miniere hanno lasciato il posto ai nuovi centri commerciali -, e sono cambiate le abitudini quotidiane delle diverse comunità: la convivenza è sembrata farsi sempre più difficile.

Il romanzo è ambientato nel 2002, nel clima di sospetto e contrapposizione che ha fatto seguito all’attacco alle Twin Towers di New York. Ma l’11 settembre degli inglesi sarebbe arrivato solo nel 2005 con gli attentati contro i bus e la metropolitana di Londra. Che fine ha fatto il multiculturalismo caro alla società britannica?

Diciamo che è uscito un po’ malconcio da tutte queste vicende. Nel libro ho cercato di catturare soprattutto le emozioni che avevano caratterizzato il dopo 11 settembre, quel misto di inquietudine e paura, al limite della paranoia, che aveva colto un po’ tutti in quel periodo.
Se scrivessi la stessa storia oggi, forse sarebbe meno carica di elementi emotivi, ma non per questo la fotografia che ne verrebbe fuori risulterebbe più rassicurante. I problemi che si sono posti allora sono stati anzi aggravati dalla crisi economica, dalla crescita della disoccupazione e dall’aumento delle disparità sociali tra i diversi gruppi etnici, oltre che dal crescere dell’intolleranza e della presenza dei movimenti di estrema destra.
Il multiculturalismo britannico è oggi seriamente minacciato dal fatto che la distanza tra le comunità si è trasformata, con il passare degli anni, in un vero fossato, spesso impossibile da attraversare e superare.

Proprio l’estrema destra è uno degli ospiti indesiderati che si presentano al capezzale del movimento operaio britannico nelle pagine di «Heartland». All’inizio degli anni Duemila si trattava del solo Bnp, oggi le cose sono ancora più complesse.

Sì, effettivamente sull’onda lunga dell’11 settembre è cresciuto un movimento di strada intollerante e violento come l’English Defence League, mentre sul piano elettorale l’United Kingdom Independence Party, il Partito per l’indipendenza del Regno Unito, pesca sempre più voti tra la middle-class delusa dai Conservatori, ponendo una seria ipoteca sulla politica in materia di immigrazione e integrazione europea dello stesso partito del premier David Cameron.
I razzisti del British National Party avevano annunciato questo fenomeno, anche se in quel caso i voti erano stati sottratti soprattutto al tradizionale bacino elettorale dei Laburisti nelle zone operaie del paese, come le West Midlands. Oggi, «il Bnp in giacca e cravatta», come amo definire l’Ukip, ha affinato la strategia e cavalca l’euroscetticismo e l’ostilità nei confronti dell’islam piuttosto che la paura degli immigrati.

Pay-tv, controlli strettissimi e militarizzazione degli stadi, trasformazione dei giocatori in figure dello star system. In Italia il volto del calcio è cambiato completamente negli ultimi anni, in Inghilterra rimane ancora una buona metafora per raccontare la società e gli umori che la attraversano… Non è ciò che ha scelto di fare con questo romanzo?

Direi di sì. Da un lato perché il calcio inglese ha subìto solo in parte i grandi cambiamenti che hanno caratterizzato invece quello del vostro paese, dall’altro perché alcune caratteristiche di fondo della sua presa sulle persone sono rimaste inalterate. In Inghilterra il calcio rappresenta ancora oggi il gioco più amato dalla gente, lo sport popolare per eccellenza. E, in questa prospettiva, riflette ancora, in modo molto interessante e abbastanza fedele, ciò che avviene nella società.
Malgrado sia cresciuto enormemente, anche nel nostro paese, il circuito economico che vi ruota intorno, e il ruolo della televisione sia divenuto imprescindibile, gli stadi continuano a essere pieni e, negli ultimi anni, passata la stagione della violenza, anche le famiglie sono tornate a frequentarli. Con la crisi economica che stiamo attraversando in questo momento, il pericolo è rappresentato dall’aumento del prezzo dei biglietti: credo che solo questo possa, in prospettiva, mettere in discussione il valore che il calcio ha avuto fino ad oggi per gli inglesi. E spingerli a restarsene a casa, invece, di andare alla partita.