In una notte di inquietudine Mickey si sveglia di soprassalto, comincia a urlare contro qualcuno che fa un gran fracasso, ma poi precipita nel buio, oltre il tepore della sua casa, oltre la sua famiglia e carambola in una specialissima cucina, abitata da un pasticcere con le fattezze di Ollio (Oliver Hardy) che impasta allegramente dolci deliziosi.

È UN SOGNO e tutto è possibile tranne il fatto che il protagonista, il bambino Mickey (che finisce pure per lievitare insieme al pane, volare nella via Lattea, tuffarsi in una bottiglia) è rotolato laggiù, in quella fucina fantasy e gastronomica, tutto nudo. Così, La cucina della notte di Maurice Sendak (Adelphi, pp. 40, euro 19, traduzione di Lisa Topi) appare a molti luogo demoniaco, dove gli esploratori (anche casuali come il piccolo Mickey senza il suo pigiama) sono dediti a perversi e «genitali» incontri.

Era il 1970 (la storia fu pubblicata da Harper and Row) e alcuni bibliotecari e insegnanti bruciarono le copie del libro, altri preferirono disegnare sulle paffute natiche di Mickey un bel pannolino. Sono stati trovati molti esemplari del graphic novel dove il bambino è «rivestito» alla meglio, con tempere e pennarelli, disegni fatti a mano da solerti adulti. Sendak, l’autore di Nel paese dei mostri selvaggi, il figlio di ebrei immigrati polacchi con cui ebbe relazioni disastrose come figlio (che non nascose nelle interviste) ha sempre affermato di non sentirsi solo un illustratore per l’infanzia.

Ma era consapevole di saperlo fare e pure bene. «Devo accettare il mio ruolo. Non mi ucciderò mai come Vincent Van Gogh. Né dipingerò bellissime ninfee come Monet. Non posso farlo. Preferisco tenermi lo stupido ruolo di essere una persona che fa libri per bambini», provocava.

Rovesciamenti di senso, pianeti che non si allineano, tabù infranti e un’audacia femminile raccontata spesso intorno ai camini accesi da Mamma Oca (l’esperta filatrice di storie e trame) è anche l’antologia presentata da Donzelli che riunisce le centoquattro fiabe raccolte, rivisitate e riscritte da Angela Carter nel corso della sua vita (nel 1979 uscì il suo La camera di sangue, spigliatissimo patchwork di «classici» personaggi che perdono l’innocenza caricandosi di sensualità, non disdegnando il fascino spesso rimosso del lupo, come in The Company of Wolves), setacciando protagoniste ardimentose e eroine di culture lontane.

Le mille e una donna (pp. 402, euro 30, illustrazioni di Cecilia Campironi, con la traduzione di Bianca Lazzaro) è come un testamento della scrittrice e studiosa di letteratura inglese, figura di spicco del femminismo, scomparsa nel 1992. Lei stessa avverte qui che le fiabe messe insieme sono in fondo un contributo al carattere eccentrico, se non completamente pazzo delle «nostre bisnonne, e le bisnonne delle bisnonne».

PARTENDO dalla «scomoda condizione della donna» (che, per l’autrice, è il semplice stare al mondo femminile), le pagine si popolano di regine, traditrici, madri cattive e figlie infelici, ragazze pescatrici e bambine sagge, fanciulle senza braccia, nonne inuit, piante salvifiche e varie stregonerie. «Le storie – dice Carter nell’introduzione al libro, l’originale apparsa nell’edizione del 1990 – si sono disseminate dappertutto nel mondo non perché tutti condividiamo la stessa immaginazione e una comune esperienza ma perché le storie sono portatili, sono parte dell’invisibile bagaglio che ci portiamo dietro quando andiamo via da casa».

Mondadori riporta invece sugli scaffali La saga di Terramare della regina del fantasy, Ursula K. Le Guin. Si vaga in un universo di arcipelaghi disseminati di isole minuscole e vaste che si susseguono in un oceano sterminato dove le oscure forze dell’Ombra incombono minacciose e possono essere sconfitte solo da Ged, una volta diventato mago – dopo un pericoloso apprendistato – e finalmente Signore dei Draghi. «Gli americani – diceva la fantascientifica scrittrice morta di recente, nel 2018 (era nata a Berkeley nel 1929) – tendono a lasciare l’immaginazione ai bambini. Eppure, puoi mescolare insieme orchi, unicorni e guerre intergalattiche senza immaginare nulla. È questo uno dei problemi della nostra cultura: non rispettiamo e alleniamo l’immaginazione, che ha sempre bisogno di esercizio». L’edizione 2020 della celeberrima saga (pp. 1176, euro 24, traduzione di Ilva Tron con le illustrazioni di Charles Vess) è impreziosita dal racconto La luce del fuoco.

Dagli ultramondi alle stanze gotiche, infestate dai fantasmi che scaturivano dalle poesie recitate da Coleridge, camere notturne imbevute di sogni e eventi soprannaturali.

È lì, in una atmosfera sospesa fra l’incubo e il desiderio di ribellione, che prendono vita esseri fuori misura umana, corpi cuciti nelle emozioni spaventose e nelle rabbie incontenibili: a fare da liaison per il passaggio impervio che piega la scienza alla fantascienza è il libro Mary. La ragazza che creò Frankenstein di Linda Baley (Rizzoli, pp. 50, euro 18, traduzione di Eleonora Dorenti, disegni di Júlia Sardà).

LEI È UNA ADOLESCENTE che freme, un problema sempre aperto per la sua famiglia che non riesce a «addomesticarne» lo spirito. Nessun adulto, infatti, potrà bloccare la sua fuga con un brillantissimo poeta, Percy Bysshe Shelley. Poi, le vicende intime si intrecciano con la grande Storia e in una notte di tempesta e brividi, nella elegante residenza di lord Byron sul lago di Ginevra, cinque amici – tra cui la coppia Shelley – cominciano a tessere racconti dell’orrore. Mary piano piano si immerge nella mente del dottor Frankenstein e nel suo perverso sogno di replicare la vita all’infinito, riportando nel mondo «pezzi» di cadaveri in un unico corpo mostruoso. Il resto è letteratura mondiale.

C’è anche un altro grande classico tornato in auge non a caso in questi tempi segnati da reiterati lockdown, con una diversa Mary come protagonista: è l’ormai ultracentenario Il giardino segreto di Frances Hodgon Burnett, che la casa editrice Dea riconsegna in forma di adattamento della versione cinematografica di Marc Munden (con inserti fotografici dal film). Anche qui, spazi rimossi, ragazzini «confinati» che poi – con la forza dell’amicizia – superano le barriere di una natura sconosciuta.

 

 

 

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Albi illustrati

Nei giardini che coltivano lo stupore

Fra le strenne di questo 2020 costellato di cupezza e incerti destini, c’è un gioioso libro a fisarmonica che intreccia la poesia («A volte sono sasso /a volte sono aliante/ ci sono parole bianche senza confini /parole di latte/ per i tuoi occhi bambini») alle immagini del mondo animale: è la nuova versione elegantemente a leporello, in edizione limitata, di Vorrei dirti di Cosetta Zanotti, con le bellissime illustrazioni di Lucia Scuderi (Fatatrac, pp. 45, euro 15,90).

Non ha parole, invece, perché è un silent book arabescato dai disegni di Maike Neuendorff Il giardino dei sogni, albo pubblicato da Carthusia (euro 19,90): due piccoli fratelli e un gatto superano una soglia incantata e si trovano in un universo sconosciuto che promette molti segreti e altrettanti stupori, aggirandosi fra uccelli sgargianti e una natura allegramente abitata da cactus giganteschi. Architetta e paesaggista, l’autrice pone inoltrare i due protagonisti in un hortus conclusus, eden a cielo aperto che è sempre un viaggio iniziatico.

In questo scorcio di fine dell’infausto anno, il pianeta vegetale è molto gettonato (segno che il salto di specie del virus è stato un peccato tutto umano di hybris). Nel prezioso albo Voci dal mondo verde. Le piante si raccontano di Stefano Bordiglioni, con le illustrazioni di Irene Penazzi (Editorialescienza, pp. 96, euro 16,90), s’impara che la rosa di Gerico muore se disidratata ma rinasce nella stagione delle piogge, mentre la cicade giapponese ha sulle spalle ere geologiche e la indonesiana «strega della foresta» emana una puzza infestante che però attira gli insetti spazzini, così da impollinarli per bene. Il libro fa parte della serie realizzata dalla casa editrice con l’università di Padova per celebrare il suo antichissimo orto botanico, in vista degli 800 anni dell’ateneo (nel 2022).

Grandi spazi aperti, orizzonti infiniti e una natura incontaminata sono gli elementi che accolsero anche Jackson Pollock da bambino (viveva nel Wyoming, terra di Sioux e cowboy). Una volta diventato artista, conservò intatta la sua libertà di movimento su enormi tele che riempiva con balletti di colore, inaddomesticabili. E la biografia divertente che lo racconta – Jackson Pollock Dripping Dance, di Federica Chezzi e Angela Partenza, illustrato da Daniela Goffredo, per Maria Pacini Fazi Fondazione Ragghianti (pp. 52, euro 14) – riprende questo ampio respiro del corpo. Ai dipinti, infatti, bisogna poterci «camminare intorno, lavorare sui quattro lati, essere letteralmente nel quadro».