«Portare la croce», si dice. Cioè farsi carico di un peso, di un dolore, di una sofferenza; sentirne la responsabilità, anche, e dunque assumersi il compito di provare a porvi riparo, prendersene cura. Cosa significa vivere, se non questo? Come sarebbe possibile, vivere in mezzo agli altri, fuori da questa disponibilità a condividerne le storie? A portare la croce, appunto, insieme a loro? Naturalmente è lecito domandarsi: ne sarò capace, saprò sopportarne le conseguenze? Ma non è dato scegliere: la vita chiama a queste responsabilità anche se non le si vuole.
Sono questi i temi, espliciti o sottotraccia, al centro del nuovo libro di Andrea Tarabbia, Il peso del legno, edito da Enne Enne Editore (pp. 205, euro 14). Ed è un libro bellissimo, terso, perfino emozionante. In realtà il centro del testo, inteso come il suo punto di partenza, è l’episodio evangelico nel quale Simone di Cirene aiuta Gesù a portare la croce, o meglio il patibulum (che della croce è il legno orizzontale), verso il Golgota, dove Gesù verrà crocifisso e dove lo stipes (il legno verticale) è stato già conficcato nel terreno.

L’EPISODIO ha narrazioni diverse in ciascuno dei vangeli, e Il peso del legno è innanzitutto un’indagine su alcune delle sue possibili interpretazioni alla luce delle differenze, piccole e grandi, fra l’una e l’altra restituzione. Solo nel Vangelo di Luca, per esempio, Simone sembra prendere la croce senza esservi costretto bruscamente, e forse non a caso José Saramago scelse proprio un passo di Luca come epigrafe del suo Vangelo secondo Gesù Cristo, nel quale il gesto dei centurioni di chiamare Simone assume un valore quasi di pietà verso Gesù; ed è sempre solo Luca a far camminare Simone dietro Gesù, anziché davanti a lui, quasi come una «prefigurazione del dolore e della fatica dei cristiani che si faranno carico del lascito di Cristo».

Ma su tutto ciò Tarabbia innesta episodi che riguardano la sua storia personale, ed è a partire da qui che il libro prende anche altre strade. È il padre, in particolare, l’elemento biografico di riflessione. Quando il proprio padre ebbe un infarto, dopo il quale non sarebbe stato mai più lo stesso di prima, Tarabbia non corse da lui. A quell’epoca era ancora un ragazzo, faceva il supplente in una scuola e si trovava in classe. Al telefono, era stato subito tranquillizzato: il padre era fuori pericolo.

DA PARTE SUA era riuscito a dire solo: «Ma io non posso venire, ho la verifica». In quelle ore, a prendersi cura di lui erano stati altri. «Io», scrive Tarabbia, «mentre tutto questo succedeva, sedevo in una classe e pensavo che, per un paio d’ore ancora, la mia vita non sarebbe cambiata e rinviavo il momento in cui mi sarei caricato sulle spalle questa croce». Ognuno è destinato, prima o poi, a portare la propria croce, leggera o pesante che sia. Forse non è giusto ma inevitabile.
È questo che sembra voler dire Tarabbia, il quale riesce davvero ad assolvere a quel compito che secondo Giorgio Caproni dovrebbe spettare ai poeti: «portare al giorno quei nodi di luce che non sono soltanto dell’io ma di tutta la tribù».