Alcuni anni fa, passeggiando in un cimitero del Vietnam alla ricerca della tomba di suo fratello, l’artista Danh Vo si accorse, non senza un profondo senso di straniamento, che molte delle lapidi recavano l’iscrizione vo dahn, in vietnamita «senza nome» o «ignoto». Il fatto che la tragica storia del proprio paese di origine, con i suoi milioni di vittime, molte delle quali ancora sconosciute, affiorasse nel suo nome, per quanto a lettere invertite, è stata quasi una folgorazione per il giovane artista che, sia dall’inizio della sua carriera, ha indagato proprio i frastagliati confini tra pubblico e privato, l’osmosi tra passato e presente, mettendo in discussione i concetti di cultura e di identità. Per Danh Vo (pronuncia: Yon Vo) l’identità non ha infatti nulla a che vedere con il nome, che può essere disperso, modificato, contaminato, per esempio come ha fatto lui sposando e divorziando varie persone solo per acquisirne il cognome, pur senza aver condiviso con loro alcuna esperienza esistenziale o emotiva.

Nato sull’isola di Phu Quoc nel 1975, l’anno della caduta di Saigon e della fine di quindici anni di guerra fratricida esacerbata dall’intervento americano, Vo è fuggito dal Vietnam con la sua famiglia quando aveva appena quattro anni, su una barca costruita dal padre, poi fortunosamente avvistata da una nave danese che li ha portati in Europa insieme a altri cento connazionali. Cresciuto in Danimarca e formatosi in Germania, Vo è un rifugiato politico senza memoria diretta del proprio paese e della guerra. La possibilità di stabilire un rapporto con un passato mai vissuto ma determinante per la propria figura di artista compiutamente transnazionale costituisce uno dei temi che si ritrovano più di frequente nei progetti concettuali e provocatori che, da qualche anno, hanno fatto di Vo uno dei nomi di punta della scena internazionale dell’arte.

Le opere presentate in una recente mostra personale intitolata Mother Tongue («lingua madre»), da poco conclusa alla Marian Goodman Gallery di New York, illustrano non solo l’interesse di Vo per il passato del proprio paese di origine, ma anche la sua predilezione per pratiche anti-autoriali come l’appropriazione. L’artista non ha infatti realizzato manualmente nessuno dei lavori presentati, ma ha invece orchestrato l’esposizione attraverso la manipolazione, a volte appena percepibile – come nel caso degli interventi calligrafici realizzati dal padre – di oggetti, fotografie e documenti appartenuti a Robert McNamara, il Ministro della Difesa all’epoca dell’amministrazione di J. F. Kennedy e responsabile dell’escalation militare americana in Vietnam. A animare le opere di Vo è l’idea che attraverso quelli che altro non sono se non scarti, le reliquie insignificanti della vita messa all’asta di un politico (McNamara è morto nel 2009) si possa comunque parlare del potere e far emergere le contraddizioni della guerra in maniera personale.

L’esempio più lampante lo offrono due modeste poltroncine provenienti dagli uffici di Kennedy, che Vo ha letteralmente decostruito, per non dire dilaniato, distribuendo negli ambienti della galleria i singoli materiali di cui erano composte: pelle, cotone, crine, iuta, mogano, ferro… La distruzione dell’oggetto non serve tanto a mimare la violenza che ha disfatto milioni di corpi nella guerra vietnamita, quanto a disegnare una immaginaria geografia post-coloniale, artisticamente «povera», di materie prime – dal Sud America all’estremo oriente – che suggerisce come un semplice oggetto quale una poltrona sia in realtà sempre attraversato da innumerevoli flussi economico-culturali; e, in particolare, come il potere statunitense (è il caso, ad esempio, della struttura in mogano, un legno tipicamente orientale) si regga letteralmente su dinamiche di sfruttamento nascoste ma portanti. A colpire, nel lavoro di Danh Vo, è soprattutto la capacità di costruire racconti inaspettati, non attraverso i singoli oggetti, ma tramite la loro organizzazione corale, il loro dialogo muto generato dall’atto di selezione e ri-collocazione dell’artista. È un modus operandi riconducibile alla figura del curatore più che a quella dell’artista, che non manca perciò di generare domande sul potere delle istituzioni museali di manipolare valore e senso delle opere ben oltre le intenzioni del loro autore.

L’idea dell’artista-curatore torna in modo paradigmatico anche nel caso di IMUUR2 (da leggersi «I am you, you are too»), una straordinaria installazione visitabile fino alla fine di maggio presso il Guggenheim di New York. Anche in questo caso Vo ha cancellato apparentemente la propria identità disperdendola in una miriade di oggetti appartenuti al pittore realista Martin Wong, figura centrale della scena artistica dell’East Village a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, morto a San Francisco di Aids.

Nel corso degli anni Wong, che come Vo era omosessuale e di origine asiatica (il titolo rimanda non a caso a dinamiche proprie alla identificazione), ha accumulato una quantità incredibile di oggetti comprendenti esempi pregevoli di statuette di giada e rulli calligrafici antichi ma soprattutto cianfrusaglie, ninnoli, souvenir – legati in particolare a stereotipi della cultura cinese e americana, da Walt Disney a McDonalds. Disposti per categoria, forma e dimensione sulle mensole di compensato che corrono lungo la stanza rettangolare di cui si compone l’installazione, gli oggetti – oscillanti tra il lezioso e l’orrido, il kitsch e il ridicolo – arrivano all’incirca alla cifra di quattromila. È come se D’Annunzio avesse stipato ogni interstizio libero del Vittoriale (che in quanto a paccottiglia certo non scherza) di cose acquistate al minimarket cinese, sorprese dell’uovo di Pasqua, bomboniere, creando analogismi oggettuali inaspettati quanto misteriosi, che rivelano – ad esempio – il razzismo intrinseco alla cultura materiale di massa. A differenza di molte opere recenti, che hanno nel principio dell’accumulo la propria ragion d’essere (come nel caso del mercatino dell’usato organizzato da Martha Rosler nell’atrio del MoMA) qui la presenza di ogni singolo oggetto non è frutto del caso o della scelta dell’artista, che si è solo limitato all’allestimento combinatorio. Chi è dunque l’autore di questa opera, sempre che di opera si tratti? Ci troviamo di fronte a un ritratto di Wong o a un ritratto Vo per interposta persona?

Curiosamente, tra gli oggetti presenti in IMUUR2 c’è anche un piccolo dipinto della Statua della Libertà realizzato da Wong: questo simbolo americano ha ispirato quello che, a oggi, va forse considerato il progetto più ambizioso e importante dell’artista euro-vietnamita. A partire dal 2011, con il titolo We the People, che rimanda alle prime parole del Preambolo della Costituzione americana, Vo ha infatti iniziato a far riprodurre in scala 1:1 l’intera Statua della Libertà, esponendone poi vari pezzi, ricombinati in maniera casuale, in diverse parti del mondo contemporaneamente. Dal 15 maggio al primo settembre, con il titolo Fabulous Muscles, parte del progetto è presentato al Museion di Bolzano, a cura di Letizia Ragaglia. Ciò che più colpisce di quest’opera monumentale ma dispersa è non solo l’aggressione verso la sua componente altamente simbolica (libertà, democrazia, ma anche immigrazione sono solo alcuni dei valori che quella statua rappresenta) ma il fatto che ogni pezzo – realizzato con uno strato di rame di pochi millimetri – sia prodotto in Cina. Nemmeno il simbolo per eccellenza degli Stati Uniti e del suo imperialismo, mutilato, disseminato e ricombinato per il mondo in infinite varianti casuali sfugge – sembra suggerire l’artista – al cambio di paradigma dell’economia mondiale. In un sorprendente parallelismo, anche l’identità dell’America, proprio come quella di Vo, si ritrova dunque forzosamente contaminata, manipolata dall’oriente, costretta a ripensarsi come molteplice e destabilizzata: la sottile pelle metallica di una domanda.