La prima voce del governo, all’indomani delle dimissioni di Fabrizio Viola dai vertici del Monte dei Paschi, è quella del sottosegretario Pier Paolo Baretta: “Aspettiamo il nuovo amministratore delegato. Penso che con lui ci sarà una fase di consolidamento del piano”. Poche parole che, vista l’esperienza dell’ex sindacalista cislino, fanno dire che l’esecutivo di Matteo Renzi non intende aprire una discussione con la Bce, con cui è stato concordato il piano che prevede la cessione di sofferenze lorde per 28 miliardi, e un aumento di capitale da 5 miliardi. Il tutto a fronte di una capitalizzazione di Rocca Salimbeni oggi inferiore a 700 milioni – meno di un decimo del patrimonio netto della banca – visto che il titolo (ieri -2,21% a piazza Affari) resta inchiodato a un misero 0,24 euro per azione.
Il problema è che, dopo ben 21 miliardi di ricapitalizzazioni in meno di dieci anni, il Monte dei Paschi appare ancora oggi come una distesa di sabbie mobili in cui si rischia di far affondare i propri investimenti. Non solo per le numerose responsabilità della banca, che quantomeno è riuscita – dopo sette anni – a riportare i bilanci in attivo, sacrificando anche il lavoro di migliaia di addetti. In realtà il caso Mps è servito, e continua a servire, per mettere alla berlina la pecora nera, in un gregge in cui di pecore bianche se ne vedono però pochissime. A riprova, i dati di Bankitalia raccontano che a luglio il tasso di crescita sui dodici mesi delle sofferenze del settore è stato pari allo 0,5%, e quello sui dodici mesi è stabile al 12,7%.
Eppure è tutta colpa del Monte, raccontano tanti altri – interessati – banchieri. Un retroscena del quotidiano “La Stampa” racconta che a Cernobbio c’era chi guardava a un ipotetico intervento del cosiddetto fondo salva Stati (Esm) per togliere Mps dalle secche. “Se risolvi quello riparte il sistema”. Ma con il commissariamento del governo Renzi. Che infatti resta alla finestra. Anche se si avvicinano sempre più le scadenze riguardanti le cessione delle quattro cosiddette “new bank” nate dalle ceneri di Etruria, Marche & c.. E ancora quelle legate alla fusione di Banco Popolare e Bpm, la ricapitalizzazione di Unicredit, e il problema di Carige. Questo solo per guardare ai casi più evidenti. Con le inevitabili ripercussioni sul cammino del governo.
Dopo le recenti parole del ministro Padoan, seppur di malavoglia primo azionista di Mps con il Tesoro, e tetragono nell’affermare di non aver ancora deciso se sottoscrivere o meno la sua quota dei 5 miliardi, viene da dire che errare è umano, perseverare è diabolico. A meno che tutto faccia brodo pur di vincere il referendum costituzionale, così come ha dichiarato la potentissima Goldman Sachs, addossando alla vittoria del “No” il rischio di far fallire la ricapitalizzazione di Mps.
Tutto (non) accade mentre, pungolati dal coordinamento del gruppo Mps, i sindacati del credito denunciano: “Il compito del governo, in fasi delicate come quella che sta attraversando il paese, il sistema bancario e il Monte dei Paschi in particolare, dovrebbe essere quello di mettere in sicurezza la banca e non di interferire su dimissioni e nomine dell’ad. E non possiamo non esprimere perplessità sulle modalità con cui sembra essere maturata la decisione di Fabrizio Viola di rinunciare all’incarico”.
Da Atene, il presidente del consiglio si limita a una dichiarazione sintetica: “Credo nella strada tracciata – fa sapere Renzi – ovvero nella messa in sicurezza globale e definitiva del sistema bancario con le aggregazioni delle popolari e con l’aumento di capitale. Sono molto più confidente rispetto a due, tre anni fa”. Senza alcun cenno alla ricostruzione, denunciata dai sindacati, secondo cui Jp Morgan e Mediobanca, a capo del pool dei “ricapitalizzatori”, avrebbero avvertito Palazzo Chigi: “Se resta Viola, non investiamo”. Nel mentre si pensa al successore (Marco Morelli, ex Mps ma anche ex Jp Morgan, oggi numero di uno di Merrill Lynch in Italia?), Si ipotizza che il cda lo nomini già domenica, in vista dell’apertura di borsa di lunedì.