Una ricerca durata cinque anni fra ospedali psichiatrici e Prefetture per capire come, nel Ventennio, la medicalizzazione del dissenso fosse considerata innanzitutto una tutela sociale, come l’eterodossia diventò sinonimo di malattia. Ne I matti del Duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista (Donzelli, pp. 238, euro 33) il pregiudizio entra nella psichiatria e viceversa giacché, ogni qual volta si devono combattere le idee contrarie al pensiero unico, la repressione si instaura agevolmente nelle pieghe dell’interpretazione scientifica. Un punto di vista inesplorato sul totalitarismo fascista, caduto nell’oblio con l’armistizio, anche, e comprensibilmente, per volontà delle stesse vittime che continuarono a percepire l’internamento come un marchio di infamia, talvolta da nascondere agli stessi figli. A tracciarle mediante referti medici e giudiziari, lettere e testimonianze dei famigliari, con un’attenta e fruibile narrazione, è stato lo storico Matteo Petracci che, seguendo un’ingente mole documentaria, è riuscito a ricostruire alcune delle vicende dei 475 antifascisti schedati nel Casellario Politico Centrale e finiti in manicomio giudiziario. Di questi, 122 persero la vita.

La psichiatria restringeva sempre di più il perimetro della «normalità» ma, se in Germania l’eugenetica fu uno degli strumenti prediletti con cui fomentare il razzismo, con gli «anormali» considerati un freno allo sviluppo biologico della nazione, in Italia si fermò alla repressione, giustificata come cura delle degenerazioni sociali. Ozio, alcolismo e vagabondaggio erano valutati vizi ostili perché, scrive l’autore: «i poveri, gli esclusi e i diseredati continuavano ad essere considerati come maggiormente pericolosi e refrattari ad accettare le regole di condotta sociale». Che, nella logica meccanicistica del pensiero dominante, si traduceva in una possibile adesione ai valori socialisti, gli emblemi cioè della decadenza civile e morale. Lombroso docet.

Uno dei fulcri del discorso di Petracci è come l’ufficializzazione della pazzia da parte dell’autorità (in molte diagnosi mediche dei dissidenti si leggeva «alcolismo», eppure non se ne trovava traccia nei fascicoli della Prefettura), compromettesse la credibilità del militante, tramutando la convinzione politica in sproloquio e scandalo, e pertanto in morte civile. Spostare discordi pensieri politici alla stato di devianza sociale da manicomio serviva come strumento, veloce ed efficace, per contenere gli elementi di disturbo del fascismo.

Si poteva essere ricoverati con una sola testimonianza e la denuncia del Tribunale speciale, o per delle lettere con cui, coerentemente, si denunciavano soprusi della polizia e controlli asfissianti, che però diventavano indiscutibili manifestazioni di paranoia, come capitò all’ex sindaco di Molinella, Giuseppe Massarenti, internato al Santa Maria della Pietà di Roma. Ma la paranoia era insita nel potere: «L’apparato di controllo – fatto di agenti, informatori, spie e confidenti – contribuiva attivamente alla costruzione dell’immagine del maniaco antifascista, attraverso la raccolta e la diffusione delle notizie sui segni dello squilibrio mentale dei soggetti e sulle loro intenzioni pericolose», così nell’Archivio centrale di Stato si trovano fascicoli di «malati» con annotazioni del tipo «infermo di mente per mania politica», ma allo stesso tempo, tanti che ricorsero all’internamento psichiatrico per sfuggire al carcere e alla polizia. Pratica avviata già verso la fine della Prima Guerra Mondiale da chi, pur sano ma dopo anni di trincea, preferiva dichiararsi pazzo, tanto che la psichiatria ufficiale cercò un collegamento fra la disfatta di Caporetto e l’antropologia criminale. Solo dei delinquenti potevano generare una sconfitta.

Nel libro si rileva che, seppur negli ospedali psichiatrici tanti erano gli iscritti Associati al Partito Nazionale Fascista con un ruolo di sorveglianza, infermieristico e diagnostico, ci furono anche direttori di manicomi autonomi che si ribellarono alle direttive emanate dagli organi amministrativi, con quali pressioni e risultati sulla carriera si può facilmente immaginare.

È bene ricordare che solo con la riforma Basaglia del 1978 finì l’epoca dei manicomi, ma se analizziamo le tragiche storie raccontate da Petracci e ci rivolgiamo all’attualità, dove la delegittimazione funge da giustificante alle violazioni dello Stato, ci ritroviamo a comprendere alcune delle dinamiche dei casi Stefano Cucchi e Francesco Mastrogiovanni. Drogato o anarchico, pericoli per la società, come una volta alcolizzato o comunista.