Alessio Bergamo è stato il primo e privilegiato allievo in Italia di Anatoli Vasil’ev, e suo personale assistente artistico. Sono passati diversi anni, e quel legame ha permesso, o «pilotato», lo stesso Bergamo a realizzare la gran parte dei suoi spettacoli a Mosca, attingendo quindi anche ad altre correnti, e pensieri e teorie, della grande tradizione russa. Anche se non sono mancate imprese in Italia, ma soprattutto laboratori e ricerche con gruppi locali con i quali ha potuto intessere solidi rapporti. Proprio con un paio di questi , il Teatro dell’Elce e il Cantiere Obraz, ha realizzato lo spettacolo che ha appena presentato al Teatro Studio di Scandicci, reinventando assai felicemente lo spazio che fu sede dei Magazzini prima, e poi di Giancarlo Cauteruccio.

 

Lo spettacolo nasce da Gogol, e dal suo fantastico Diario di un pazzo, più modernamente divenuto in questo vorticoso susseguirsi di scene, Appunti di un pazzo (meritoria produzione del Teatro nazionale della Toscana). La storia è quella del burocrate Popryscin, impiegatuccio esecutivo che accumula illusioni a fantasie, sognando di conquistare la bella figlia del capufficio, usando artifici surreali come la lettura delle lettere inviate alla fanciulla dalla sua cagnolina Maggie. E quella follia, benché smodata, è velocemente progressiva, per cui il piccolo funzionario abbandona sempre più i propri limiti esistenziali, sentendosi re di una Spagna che ha solo temporaneamente perso il proprio sovrano, e via di questo passo, convinto di stringere sempre più definitivamente l’assedio al cuore della malcapitata vittima. Fino al colpo di scena finale, capace di mettere in dubbio valori e posizioni.

 

 

Ma al di là del racconto di Gogol, notissimo, e alla prestanza dell’attore protagonista (Domenico Cucinotta), è interessante e seduttivo il percorso che allo spettacolo imprime la regia di Bergamo. E’ evidente la frequentazione di Vasil’ev e la conoscenza di Karpov, attraverso i quali transita la tradizione di Stanislavskij. Ma qui c’è una leggerezza, e il piacere del divertirsi a teatro attraverso i suoi stessi elementi (la maschera, il trucco, il disegno infantile) che accrescono la malinconia, se non a tratti il vero dolore, per il folle circuito del protagonista. Lontano apparentemente dalla realtà, ma che nella disposizione ravvicinata del pubblico rispetto alla scena, scopre in controluce forti e solide somiglianze con l’oggi, sui tragici dubbi tra l’essere e l’apparire, e su certe grandeur autoreferenziali, che mascherano malamente una disperata solitudine. In privato come nel pubblico.