La “pax draghiana” sembra davvero finita. Dopo la pausa estiva, le continue incursioni della Lega contro il green pass, e il feeling ritrovato tra Salvini e Meloni (plasticamente evidente con i voti comuni sul certificato anti Covid) stanno terremotando il delicato equilibrio su cui si è retto finora il governo Draghi.

E se i due leader della destra nazionalista brigano per andare al voto al più presto, anche nel Pd crescono i segnali di allarme. C’è chi, come Goffredo Bettini, ha detto esplicitamente che bisognerebbe eleggere Draghi al Quirinale e riprendere la «dialettica democratica», che vuol dire elezioni.

Letta invece continua a predicare che il governo deve durare fino al 2023, definendo il Pd «il partito più draghiano di tutti». Ma anche lui ieri ha constatato che la Lega «ha ampiamente superato il limite» delle scorrettezze contro il governo che sostiene.

Ieri Francesco Boccia, responsabile enti locali dei dem e vicino al segretario, ha esplicitato i dubbi sulla tenuta di questa maggioranza accozzaglia. «A Roma c’è chi ha creduto che, con la nascita del governo Draghi, la Lega potesse essere istituzionalmente corretta», ha detto in un comizio a Merano. «Ma Lega e Fdi sono uguali. Ed è evidente che Salvini è entrato nella seconda fase della sua permanenza nel governo Draghi: era chiaro che finisse così. Ora vinciamo le amministrative e poi prepariamoci a ogni evenienza, difendendo il lavoro del governo sull’uscita dall’emergenza sanitaria ed economica, ma unendo le forze progressiste per vincere dopo le amministrative anche le prossime politiche».

«Pronti ad ogni evenienza» significa che anche al Nazareno hanno capito che «così non si va avanti». Boccia prevede che, se le amministrative dovessero andare malino per la Lega, Salvini «si rimetterà in modalità Papeete, per non lasciare a Meloni tutto il campo della protesta». Dunque, «noi, pur essendo leali a Draghi, e pur ritenendo che dovrebbe continuare a restare a palazzo Chigi fino a fine legislatura, non possiamo farci trovare impreparati», spiega al manifesto. «Anche perché se la guerriglia del capo leghista dovesse aumentare di livello, non escludo che il primo a chiamarsi fuori potrebbe essere proprio Draghi».

Qui c’è una differenza con le tesi di Bettini: se il consigliere di Zingaretti auspica la fine anticipata di un governo che «è un quotidiano campo di battaglia», Boccia (come Letta) ribadisce «massima lealtà» al premier. Ma vede nelle mosse delle ultime settimane della Lega un’escalation che non ha a che fare solo con il clima da campagna elettorale per le amministrative, ma anche con la data delle urne che potrebbero scattare subito dopo l’elezione del nuovo capo dello Stato o nell’autunno 2022, quando i parlamentari avranno maturato il diritto alla pensione.

Di qui nasce la necessità di attrezzarsi nella costruzione del fronte Pd-M5S sinistra che andrà a battesimo già alle comunali di ottobre. «Ci stiamo presentando alle amministrative con il centrosinistra unito in tutta Italia e in 35 comuni c’è l’alleanza con il M5S: una condizione inimmaginabile fino a 2 anni fa», ragiona Boccia. «È evidente che la strada è ancora lunga, che siamo in un cantiere aperto, ma l’obiettivo è chiaro: costruire un fronte competitivo per le politiche».

Concetto condiviso da Conte: «Noi con il Pd saremo alternativi alla politica delle destre», ha ribadito ieri il leader M5S. Il messaggio di Boccia però è rivolto a chi, nel Pd, è ancora scettico sull’asse con i grillini, a chi spera nel ripetersi dopo il voto di una grande coalizione a guida Draghi.

Ma se il motto è «tenersi pronti», da Bersani arriva un altolà: «Bisogna darsi una mossa, non siamo pronti per il voto. Per ora abbiamo un potenziale, ma non c’è un’offerta politica che dia l’idea di un colpo di reni».