Nell’ultima riunione dei ministri finanziari dell’Unione Europea non si è deciso di mandare in soffitta il fiscal compact. Agli Stati membri, soprattutto quelli più colpiti dalle complicazioni economiche e finanziarie della pandemia, è stata solo concessa una maggiore «flessibilità di bilancio».

Più generosa che in passato, ma temporanea e sulla parola.

In sostanza, i Paesi membri possono espandere i propri bilanci ricorrendo al mercato con l’emissione di nuovo debito, ma con un grosso rischio: passata la bufera, chi avrà speso molto si ritroverà solo ed impotente di fronte ad eventuali assalti della speculazione e con il cappio al collo del vincolo esterno che nel frattempo verrà ripristinato. Nessuna decisione, infatti, è stata assunta sulla condivisione di questo debito aggiuntivo.

Gli Eurobond o la garanzia illimitata sulle emissioni eccezionali dei singoli Paesi rimangono ancora nella sfera della discussione mass-mediatica, mentre il presidente della Bce Lagarde, dopo il disastro comunicativo dei giorni scorsi, sull’ipotesi dei cononabonds ancora parla di un’eventuale «esplorazione a tempo determinato».

L’unica certezza rimane il Fondo Salva Stati (Mes), ovvero la concessione di prestiti agli Stati in difficoltà previa sottoscrizione di protocolli per il rientro dal debito a suon di riforme lacrime e sangue.

La verità è che questa crisi sta riproponendo la storica divaricazione tra alcuni Paesi del nord (Germania e Olanda in testa), fermi nella loro contrarietà a qualsiasi forma di mutualizzazione del debito europeo o di una parte di esso, e i Paesi mediterranei con l’aggiunta dell’Irlanda (i vecchi PIIGS) ed ora di altri ancora (Slovenia, Lussemburgo, Belgio, Francia), che, con terrore, vedono nel proprio futuro uno scenario che, per forza evocativa, si potrebbe definire «ellenico».

Con una differenza non da poco rispetto a qualche anno fa. Gli stessi Paesi che nel 2015 fecero blocco con l’asse del nord per dare una lezione alla Grecia, oggi si ritrovano, insieme alla stessa Grecia, ad invocare «misure solidali» nella gestione di questa crisi. E nessuno di questi, a cominciare da chi li ha già sperimentati sulla propria pelle, è disposto a sottoscrivere «memorandum d’intesa» per salvare le proprie finanze pubbliche. Il coronavirus è riuscito dove non riuscirono fame, miseria e disoccupazione dopo il crack finanziario del 2007-2008, che in Europa sfociò nella cosiddetta «crisi dei debiti sovrani».

E’ il fatto politico più importante di queste ore: nove Paesi dell’Unione, trainati dal premier italiano Conte, hanno preso carta e penna ed hanno scritto una lettera-appello al presidente del Consiglio europeo Charles Michel, chiedendo non solo «misure eccezionali» data l’eccezionalità della situazione, ma che la politica monetaria della Bce venga affiancata da «audaci» decisioni di politica fiscale, che tradotto significa più spesa pubblica, oggi per l’emergenza, domani per rimettere in piedi l’economia.

Con quali soldi? Su questo punto il documento è molto chiaro: con uno «strumento di debito comune emesso da una Istituzione dell’Ue». I famosi Eurobond, che consentirebbero di raccogliere risorse sul mercato per il «finanziamento stabile e a lungo termine» delle politiche economiche necessarie a contrastare la crisi.

Un passo avanti notevole, soprattutto per la considerazione del «lungo termine». Ma si potrebbe osare di più. La formula del «debito europeo» contenuta nella lettera dei nove capi di governo si basa su due aspetti chiave: l’approvvigionamento delle risorse avviene sul mercato; il rischio viene condiviso in solido e proporzionalmente dagli Stati membri.

Debito europeo e condiviso, certo, ma pur sempre di debito si tratta.

Forse sarebbe venuto il momento di prendere in considerazione una qualche forma di finanziamento monetario a lungo termine dei deficit di bilancio, senza creare nuovo debito e, per questo, dipendere dagli umori e dai calcoli del mercato dei capitali. Gli strumenti ci sono. Non si capisce perché quello che è stato possibile per tanti decenni nei principali Paesi del mondo non possa essere possibile oggi con una crisi alle porte che si annuncia devastante.