«Da domenica, dopo la scossa, abbiamo raccolto tutto il latte dagli allevatori della zona. Abbiamo garantito alle aziende zootecniche il ritiro. E poi ci siamo occupati del caseificio». A Norcia alla cooperativa della Grifolatte, la centrale del latte umbra, si prova a rialzare la testa. Carlo Catanossi, il presidente, racconta i primi giorni dopo il terremoto di domenica: «Qui nella zona di Norcia sono circa 100 le aziende, molte di piccolissime dimensioni, fortemente danneggiate. Altre 50 quelle con danni più lievi – spiega al manifesto – Difficile quantificare il numero di lavoratori: tra dipendenti e autonomi sono 1500-2000. Sono loro a fornirci il latte bovino e ovino».

Il caseificio è nuovissimo: inaugurato nel 2013, ospita 40 dipendenti. Alcuni di loro arrivano da Amatrice, altri da Fossato di Vico, l’intero cratere del sisma. «La struttura ha retto perfettamente, ma il resto della zona industriale è letteralmente a terra. Il nostro caseificio è in ferro e acciaio, ha riportato danni solo al sistema di adduzione di acqua e latte e ad alcune griglie dove è stoccato il formaggio: sono cadute e abbiamo perso 20mila forme, 200 quintali. Ma nonostante tutto ieri abbiamo lavorato 600 quintali di latte. Ci ha permesso di ripartire».

Ripartire, la parola d’ordine tra le valli e le colline che costeggiano l’Appennino. È il motivo per cui in tanti resistono allo sfollamento: andare via significherebbe abbandonare le fonti di sussistenza, terra e animali. «Come cooperativa siamo vicini agli allevatori: raccogliamo il latte anche da chi prima lo lavorava da solo e ora non può più farlo – continua Catanossi – La paura maggiore è il mercato: anche se vendiamo in tutt’Italia, Umbria e Marche sono il nostro principale bacino. Non ho invece paura che la gente se ne vada: io, gli allevatori di Norcia, li conosco bene. La loro terra non la lasceranno, hanno investito la vita in questo lavoro».

Lavoro che è vita quotidiana, individuale e collettiva: intorno agli animali girano buona parte delle attività economiche della Valnerina umbra, dal turismo agro-alimentare alla norcineria, dai caseifici al tessile. Borghi piccoli, gioielli medievali, dove chi viene in visita può vivere da vicino il dolce percorso produttivo fino al bene finito, da degustare in ristoranti, osterie e agriturismi. È proprio l’intreccio virtuoso che oggi può trasformarsi in ostacolo, un effetto-domino che fa temere per la tenuta sociale dell’Appennino.

Lo si vede con la fuga dei turisti: i visitatori se ne vanno anche dalle zone dove il sisma non ha provocato alcun danno. Se succede a Perugia, ovvio che accada in Valnerina dove l’autunno porta con sé un turismo diverso e attento al territorio, attirato da sagre, raccolta delle olive, vendemmia: secondo la Confcommercio dopo le ultime scosse già mille visitatori se ne sono andati, lasciando scoperto il ponte di Ognissanti e bruciando tra Umbria e Marche 300 milioni di euro.

Giovedì, a poche ore dalle scosse del 26 ottobre, mentre ci trovavamo al Centro operativo della Protezione Civile di Norcia, due giovani produttori chiedevano di non cancellare la mostra-mercato dello zafferano di Cascia. Doveva cominciare sabato, ma è stata annullata come è stata cancellata la mostra di funghi ed erbe a Spoleto.

Poco lontano, fuori dai centri storici, l’emergenza è la fuga degli animali: vitelli, mucche e maiali sono scappati quando i recinti sono caduti e i proprietari stanno facendo di tutto per recuperarli. Chiedono subito nuove stalle per non perderli, per nutrirli e mungerli. E per non veder evaporare una ricchezza stimata in un miliardo di euro di fatturato solo nel settore agro-alimentare nella Valnerina umbra. E poi c’è l’indotto: caseifici, salumifici, prosciuttifici, agriturismi. Prodotti conosciuti in tutto il mondo: la patata di Colfiorito, la lenticchia di Castelluccio, il prosciutto e la salsiccia di Norcia (finiti anche alla Casa Bianca alla tavola degli Obama) tengono in piedi centinaia di imprese, per il 90% micro-aziende a conduzione familiare.

Ieri le immagini che rimbalzavano nei telegiornali mostravano strutture lesionate, capannoni danneggiati, squarci negli edifici da cui si vedono i prosciutti ancora appesi. Una ricchezza in bilico che si inserisce in una crisi più ampia che in Umbria ha colpito con particolare durezza: «La nostra regione non è l’isola felice che ci si immagina – ci spiega Mario Bravi, presidente dell’Istituto di ricerche economiche e sociali della Cgil – Tra le regioni del centronord è quella che ha avuto una riduzione del Pil più alta della media nazionale. E le zone interne, come la Valnerina, l’hanno avvertito ancora di più».

Se tutti ricordano gli operai ternani della Thyssen manganellati a Roma, sono tante le crisi aziendali che investono la regione dove sono stati usati con più frequenza i contratti a tutele crescenti del Jobs Act, dove 20mila persone lavorano solo con i voucher e i contratti a tempo indeterminato scompaiono, il 43,5% in meno rispetto al 2015.

«Il colpo del terremoto peserà ulteriormente su un’economia fatta di piccole e medie imprese, spesso legate alla sub-fornitura. Se non si pensa subito ad un piano per il lavoro l’Umbria morirà. E morirà la Valnerina: qui le attività prevalenti sono agricoltura e allevamento, piccole e piccolissime imprese. Il prosciuttificio più grande, Lanzi, conta 60 dipendenti; i caseifici ne hanno meno di 15. L’acqua minerale Tullia a Sellano ne ha 20. E poi c’è il turismo, circa 100 tra ristoranti, hotel e agriturismi con in media 3-4 dipendenti. Per questo va evitato l’abbandono del territorio: se si deportano le persone, si perde il futuro».