Una paura, per non dire un timor panico, si sta diffondendo nelle file della ex maggioranza e soprattutto del Pd. Rimbalza dal gruppo dei deputati a quello dei senatori, moltiplicato dalle dimissioni a sorpresa del segretario: «Non sarà che stiamo permettendo alla destra di intestarsi questo governo?». Dove si intende un rapporto biunivoco, perché riuscire a «mettere il cappello» sul governo vuol dire per la destra farsi poi tirare la volata dal governo stesso alle prossime elezioni.

Domanda retorica. È proprio così e il peggio è che l’intestazione di cui sopra non passa per scelte politiche vicine alla destra e che potrebbero pertanto essere criticate e bloccate. È questione d’immagine e di narrazione però su quel piano, che non è proprio secondario, non c’è partita. La destra, soprattutto Salvini, mette a segno un colpo dopo l’altro. La (futura e auspicata) «Alleanza progressista» arranca. Il capogruppo Pd alla Camera Delrio prova a metterci un freno: «Quello di Draghi non è un governo che va a destra. La sua agenda è la nostra. Bene il coinvolgimento di Protezione civile ed esercito nella campagna vaccini». Con chiunque si parli del Pd dal Nazareno al gruppo del Senato, la musica non cambia: «Il governo non è affatto più vicino alla destra che a noi».

Però il messaggio che arriva al Paese è un altro e non potrebbe che essere così. Fatte salve le rispettose dichiarazioni di rito, la discontinuità tra questo governo e il precedente era tanto certa quanto inevitabile. Va da sé che chi, dagli spalti dell’opposizione, la reclamava da mesi si trovi avvantaggiato. Ma certo facilita di molto il lavoretto al leghista diffondere l’impressione di aver preso malissimo la sostituzione di Arcuri, come hanno fatto molti esponenti della ex maggioranza sino all’urlo accorato di Bersani giovedì sera in tv: «Se Draghi sostituisce Arcuri va bene ma deve spiegare perché». È altrettanto vero che se i ministri della Lega si adoperano per apparire i più solerti sui fronti che per il governo sono fondamentali come le crisi aziendali e il piano vaccini, mentre i colleghi di provenienza opposta appaiono colpiti da crisi collettiva di afonia il risultato, in termini d’immagine, è scontato in partenza. E infatti dicono che proprio Draghi, parlando qualche giorno fa con un importante ex senatore suo amico, si sia detto positivamente colpito dall’atteggiamento collaborativo del capo leghista.

Non si tratta solo della Lega. Fi, pur senza agitarsi troppo, si muove sulla stessa lunghezza d’onda. «Noi – dice Gasparri -abbiamo interpretato questa fase come servizio alla nazione, gli altri come ora di ricreazione per litigare tra loro. Anche Draghi deve tener conto del fatto che ci sono portatori di problemi e portatori di soluzioni». Concetto non molto diverso da quello che esprime, in forma più sbrigativa, un senatore del Pd: «Stiamo troppo a guardarci l’ombelico».

Nella ex maggioranza, per ora, più che rivedere la rotta se la prendono con il premier. È lui che dovrebbe «tenere il baricentro». Cosa s’intenda, però, non è chiaro. Il premier di un governo di salvezza nazionale non può certo dichiararsi più vicino ai giallorossi e non può nemmeno esserlo. La realtà è che la ex maggioranza si aspettava la conferma almeno di Arcuri come segnale politico di continuità, a prescindere dal giudizio sul suo operato o sulla sua utilità futura. Ma questo non è il modus operandi di un premier che non è un politico e che deve puntare proprio sulla possibilità di sfuggire ai condizionamenti politici per procedere velocemente.

Non che ai tre «partiti di Conte» manchino giustificazioni per lo smarrimento. Sono reduci da una sconfitta cocente. Sono quindi entrati nella nuova maggioranza dandosi per missione la difesa della continuità con il precedente ’loro’ governo. Posizione comprensibile ma alla lunga perdente e destinata, senza revisione, a consegnare, sul piano dell’immagine se non su quello dei contenuti, il governo Draghi alla destra.