Sfiammare il referendum costituzionale, disinnescare quell’effetto domino che potrebbe essersi innescato in tutta Europa con il voto per la Brexit, e cioè la contestazione popolare – e democratica – dei governi del rigore. Matteo Renzi si trova a un bivio: dopo aver chiamato il plebiscito su di lui e messo la sua testa (politicamente parlando) sul voto di ottobre, tutto e tutti consigliano di abbassare i toni, per evitare di fare la fine del primo ministro inglese Cameron. Ieri sul Corriere della Sera il presidente emerito Giorgio Napolitano era esplicito: «Occorrerà restituire al confronto sulla riforma costituzionale la sua oggettività e, dal punto di vista degli sviluppi politici futuri, la sua neutralità».

Ma come? Ieri pomeriggio Matteo Renzi è volato a Parigi per una cena informale con il presidente Hollande, di fatto è un prevertice in vista della riunione della « cellula di crisi» domani a Berlino, con Merkel più i due grandi paesi fondatori rimasti, ai quali si aggiungerà Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo. Il fronte esterno della crisi del Brexit è delicatissimo. Ma per l’Italia si intreccia a un fronte interno non meno delicato. Quello che ormai i media chiamano «Renxit».

Le vicende del Regno unito, tanto più che sono arrivate all’indomani della disfatta del Pd alle amministrative, hanno acceso l’allarme rosso a Palazzo Chigi. Il rischio di perdere la prossima consultazione popolare cresce. I nemici lo promettono, gli amici lo mettono sull’avviso. «Penso che Renzi ormai abbia capito che il referendum non passa. L’era di Renzi è finita, ci stiamo preparando al dopo, ce la giocheremo con i 5 stelle», ha detti ieri il leghista Salvini a Parma annunciando per metà settembre una Pontida tutta per il no «perché è un referendum che cancella ogni tipo di autonomia locale». Resta di verificare se i 5 stelle abbiano la stessa determinazione, che al momento però non è pervenuta.
Dal fronte opposto, e cioè dallo stesso fronte del premier, ieri Gianni Cuperlo ha riunito la sua corrente Sinistradem a Bologna, e lì ha chiesto una modifica dell’Italicum che «renderebbe molto più semplice gestire il passaggio ad oggi piuttosto complicato del referendum».

Ma se per ora Renzi non vuole sentire ragioni sulla modifica dell’Italicum, presto dovrà decidere i tempi con cui il governo dovrà deliberare il referendum. E che al momento non abbia le idee chiare lo dimostrano le sue stesse dichiarazioni da un giorno all’altro. Ieri in un retroscena del Corriere firmato da Maria Teresa Meli, la cronista più esplicita sugli interna corporis di Palazzo Chigi, il premier dichiarava ai fedelissimi: «Lo convocherò quando più ci conviene». Peccato che il giorno prima alla Stampa aveva dichiarato, senza ricevere obiezione, l’esatto contrario smentendo l’ipotesi di un rinvio della consultazione: «Il referendum avrà la tempistica prevista dalla Cassazione. Punto e basta. Di che parliamo?», aveva detto.

Ma le cose non stanno precisamente così, basta leggere l’articolo 15 della legge 352 del 1970, come spiega il giudice presso la Corte di Cassazione Domenico Gallo: «Se entro il 15 luglio, questo è il termine, andassero a buon fine le raccolte delle firme popolari, la Cassazione avrebbe un mese di tempo per verificarne la validità, quindi dovrebbe decidere entro il 14 agosto. A quel punto il governo ha sessanta giorni per deliberare il referendum, che poi sarà indetto dal presidente della repubblica. Referendum che si deve svolgere in una domenica compresa fra il cinquantesimo e il settantesimo giorno dal momento dell’indizione. Se invece entro il 15 luglio né la raccolta di firme del Pd né quella dei cittadini che invece si oppongono alla riforma dovessero raggiungere quota 500mila, resterebbe valida la richiesta di referendum dei parlamentari. In questo caso i sessanta giorni utili al governo per deliberare partono lo stesso 15 luglio». Dunque se il governo volesse temporeggiare, potrebbe spingere il referendum fino ai primi di dicembre, almeno in via teorica. Comunque sia, Renzi mente alla Stampa, o per lo meno non la dice tutta, altro che «punto e basta»: la Cassazione ha un ruolo nella individuazione della data, ma alla fine deciderà il governo se convocare presto o tardi le urne. Tanto più che il 4 ottobre la Consulta si riunirà per affrontare il vaglio dell’Italicum sul premio di maggioranza, sulle liste bloccate e sulla stessa procedura di approvazione della legge. La Corte potrebbe esprimersi il giorno stesso o aggiornarsi. E anche questo conterà nella scelta del giorno del voto.