Pochi giorni prima dell’apertura a Bergamo della sesta edizione del Festival Orlando. Identitá, Relazioni, Possibilitá (3-12 maggio), il Tribunale Arbitrale Sportivo ha dato ragione alla Federazione Internazionale di Atletica sancendo che, per poter continuare a gareggiare, l’atleta sudafricana iperandrogenica Caster Semenya dovrebbe «normalizzarsi» ingollando estrogeni che ne abbassino il tasso di testosterone nel sangue. L’atleta ha minacciato il ritiro dalle corse, non tanto perché questa sanzione la renderebbe più «donna» e potenzialmente meno performante quanto per il fatto che, parole sue: «Io sono e sarò sempre questa». Tra gli oltre 30 appuntamenti, spettacoli di teatro e danza, mostre e incontri proposti a Bergamo per raccontare corpi, generi e orientamenti sessuali, è stato proiettato anche un documentario francese dedicato al fenomeno dell’intersessualità e dell’ansia di binarismo che anche il caso Semenya testimonia. Si tratta di Ni d’Ève, ni d’Adam. Une histoire intersexe (Francia 2018) di Floriane Devigne, il cui titolo rinvia – forse un omaggio? – a un bel film del 1996 di Jean-Paul Civeyrac che però non trattava questo tema. Di fronte al caso Semenya, c’è chi, come Megha Mohan della BBC, ha notato che la sua peculiarità fisiologica (alta produzione di ormoni androgeni) è sanzionata e sottoposta a correttivi mentre così non è stato nel caso di atleti maschi dalle caratteristiche anch’esse peculiari come Usain Bolt (altezza) o Michael Phelps (ampiezza delle spalle).

L’INTERSESSUALITÀ e l’allarme che suscita dicono molto sulle norme di genere nella nostra società. A questo proposito, il film di Devigne, la cui proiezione bergamasca si è svolta in collaborazione con Gender Bender Festival di Bologna, documenta la realtà di chi nasce con un apparato sessuale non binario iscrivendola in una cornice narrativa che ha come protagonista Deborah, intersessuale venticinquenne impegnata nella redazione di una tesi di sociologia sulla sua stessa condizione.

ATTRAVERSO diverse voci, tra cui quella del militante intersex Vincent Guillot, Ni d’Ève, ni d’Adam fa emergere l’intersessualità come fenomeno plurale, riguardante persone con cromosomi diversi (c’è chi è nata XY e chi è nato XXY), ciascuna con la propria storia (chi segnata da rabbia, chi tutto sommato serena) e il proprio modo di affrontare l’impatto con una società ancora incapace di concepire questi corpi se non come mostri, vittime di malformazioni o anomalie.
Eppure, le persone intersessuali sono presenti nella popolazione in percentuale pari a quelle con i capelli rossi. Ci sono sempre state, anche se spesso non ce ne accorgiamo. Il più delle volte, infatti, i loro corpi hanno subito interventi chirurgici sin dalla più tenera età senza lasciar loro il tempo e la possibilità di prestare alcun consenso. Il tertium fa paura e la paura è espressione dell’ansia di attribuire a ognuno un posto nel sistema maschio/femmina concepito sul modello della riproduzione sessuale. In virtù di questa ideologia, la riproduzione è anche il calibro con cui misurare il grado di aderenza di una vita alla norma (etero, riproduttiva) e così attestarne il valore: «I miei genitori mi hanno spiegato con un misto di pena e di compassione negli occhi che ero stata operata subito dopo la nascita e che non avrei mai potuto avere figli. Avevo sette anni. Io ero sollevata perché con quelle facce pensavo che volessero annunciarmi il loro divorzio», ricorda il personaggio di M. a cui fa eco Deborah: «Io avevo otto anni quando i miei genitori a tavola mi hanno comunicato che non avrei mai potuto avere figli. Io ho risposto: ‘Non importa, tanto andrò a studiare gli orsi polari alle isole Svalbard’».

IL PIÙ DELLE VOLTE, la chirurgia decide che è più facile assegnare al sesso femminile un soggetto con genitali indeterminati e, dunque, oltre alle operazioni di rimozione di eventuali tessuti testicolari che possono avvenire nell’arco di diversi anni, si procede per tutta la vita alla somministrazione di estrogeni e alla periodica imposizione di dilatatori vaginali sin dall’infanzia. L’obiettivo è fabbricare un corpo che non solo è femminile dal punto di vista fenotipico ma è anche suscettibile di penetrazione fallica per via vaginale. Nel documentario, il personaggio di M. è modificato digitalmente per apparire senza volto, come una macchia bianca in cerca della propria identità: «Quando leggo il mio dossier medico, mi accorgo quanto i dottori si siano accaniti a dissimulare ciò che loro stessi e l’insieme della società concepiva come un male vergognoso, di cui ci parlavano sempre in termini drammatici. Ecco come si diventa malati senza esserlo e come si passa la propria infanzia in ospedale senza capire perché. Per la dottoressa che mi operò ero un’anomalia, il che la spinse a dire ai miei genitori di non farne ‘un altro’. Ma un altro cosa?».

FILM come questo, come Arianna di Carlo Lavagna, They di Anahita Ghazvinizadeh o XXY di Lucia Puenzo, permettono ai corpi intersessuali di esistere nel nostro immaginario non in forma di mostro o creatura ermafrodita, con tutto il corollario di mitologie e fantasmi che essa può evocare, ma come portatori di una più ampia possibilità di essere umani. Si tratta di un contributo alla lotta di questi soggetti perché si fermino le mutilazioni genitali degli intersessuali alla nascita o si cessi di imporre loro un sesso e un genere come sta accadendo a Semenya che con la sua stessa esistenza pone un interrogativo importante al modo binario in cui sono organizzati gli sport.